Al Bellini «Il problema» di Fresa indaga il mistero (e le metafore) dell'Alzheimer

Al Bellini «Il problema» di Fresa indaga il mistero (e le metafore) dell'Alzheimer
di Donatella Trotta
Giovedì 3 Febbraio 2022, 11:00 - Ultimo agg. 15:33
7 Minuti di Lettura

Il silenzio di Dio. La cognizione – progressiva, inarrestabile, implacabile - del dolore che all’improvviso stravolge identità, ruoli, equilibri relazionali e spaziotemporali. E poi l’impossibile possibilità dell’amore: che in gesti di pietas tanto struggente quanto estrema può ricomporre, con eroica pazienza, i frammenti di un’armonia perduta, smussare le schegge gelide dell’indifferenza di un mondo esterno spesso ostile, arginare la deriva dello smarrimento. E abitare, infine, quello spaesamento che già Martin Heidegger preconizzava come un destino dell’umanità tutta. Restando umani. Non è facile trovare le parole per dirlo, il morbo di Alzheimer: incurabile sindrome neurodegenerativa che colpisce sempre più persone a livello mondiale (nel 2015 si sono stimati in 46,8 milioni i casi, dei quali oltre 1 milione e 200mila in Italia; ma le cifre sono destinate quasi a raddoppiare ogni vent’anni, fino a raggiungere, secondo le proiezioni, 74,7 milioni nel 2030 e 131,5 milioni nel 2050). Perché dietro i numeri delle statistiche ci sono uomini e donne (come la grande attrice Monica Vitti, scomparsa ieri dopo essere già stata assente al mondo da vent’anni), famiglie e storie invisibili di “caregivers” spesso soli, provati dalla fatica improba della manutenzione degli affetti e dai turbamenti delle intermittenze del cuore, nel lento e irreparabile declinare della mente di un proprio caro, passata dalla luce attraverso una nebbiosa penombra fino al buio fitto della coscienza. Di sé e degli altri.

Ancora più difficile trovare le parole per dirlo, se quella storia ti tocca molto da vicino. E per liberartene - dopo che la spada del dolore si è piantata per anni nella carne della tua vita per separarti dall’effimero - devi allora trasfigurarla (sublimarla?) con l’arte: (ri)mettendola in scena a ciglio asciutto, per farla così risuonare con rispetto nei cuori pensanti di altri nella sua sostanziale, oggettiva universalità. Perché anche la malattia può essere una metafora, ci ricorda Susan Sontag. E ci riguarda tutti, indistintamente: come la pandemia ha confermato. È quanto è capitato a Paola Fresa, giovane attrice, formatrice e drammaturga pugliese che con il testo teatrale «Il problema» - in scena nel Ridotto del Teatro Bellini di Napoli fino a domenica 6 febbraio: tutte le sere alle 20.45, domenica alle 18,30 - ispirato a suo padre, ha avuto non a caso la Menzione Speciale al Premio Platea 2016, scelta tra 504 opere in concorso; e soprattutto, l’artista ha vinto la sfida di raccontare senza retorica né patetismi - ma con un intimo lavoro di scavo che intreccia con misurata  e potente delicatezza vari registri - la paradigmatica parabola umana, troppo umana di un nucleo familiare in un interno domestico travolto dall’improvviso e inesorabile scivolare nell’oblio di un uomo, amatissimo da moglie e figlia. Lo spettacolo, prodotto da Fondazione Sipario Toscana, scritto e interpretato da Fresa stessa (nei panni della Figlia) accanto ad attori di rango come Nunzia Antonino (l’intensa, struggente Moglie e Madre), Franco Ferrante (lo smarrito, spiazzante Marito e Padre) e Michele Cipriani  (abilmente metamorfico nei tre ruoli di figure esterne che si affiancano al trittico familiare protagonista della pièce, stemperandone il dramma con pennellate ironiche, satiriche e grottesche), è anche un significativo lavoro di creazione e regia collettiva che si è avvalso della collaborazione di Christian Di Domenico, delle efficaci scene (minimaliste ma fortemente duttili ed evocative, secondo il dettato teatrale di Peter Brook) e costumi di Federica Parolini, con le luci sapientemente orchestrate di Paolo Casati e le sfumature di opportuni contrappunti musicali che nella playlist condivisa da ciascun attore annoverano  brani come «Gotta get up» (Harry Nilsson); «Nient’altro che fiori» (Gianmaria Testa); «Life on Mars» (Aurora); «Remembering» (Ennio Morricone);  «Le sacrifice» (Francois Couturier & Anja Lechner); «Samskeyti» (Sigur Ros); «Bird Guhl» (Anthony & Johnson).

La casa-cuore della vicenda è un grande cubo, che si erge sul palcoscenico come un duttile teatro nel teatro, dalle pareti invisibili aperte sulla scena del mondo, a separare e connettere in un continuum fluido un dentro e un fuori simbolici e reali, soggettivi e oggettivi.

Sul palco solo qualche sedia, un trolley (che va e viene, come la mente del protagonista e le reazioni bipolari delle sue care), una vecchia radio che ogni tanto gracchia in un angolo le sue metaforiche difficoltà di trovare la giusta frequenza, accanto a un microfono dal quale Michele Cipriani scandisce i titoli dell’ininterrotta sequenza di scene/accadimenti, a mo’ di didascalie di quadri di un’esposizione, prima di vestire di volta in volta, da abile mattatore trasformista, i panni dell’affettuoso e scanzonato badante polacco, del medico brutale e incapace di empatia nella diagnosi e dell’impiegato dell’Inps, prototipo del burocrate cinico e strafottente che nella commissione di invalidità vede solo pratiche rognose da evadere anziché casi umani in cerca di ascolto e di aiuto, ma che a un certo punto interpella sfrontato il pubblico responsabilizzandolo sull’ipocrisia di un intero sistema che, in fondo, rende tutti complici della arendtiana “banalità del male”.

Ma è nel trittico familiare che il crescendo della vicenda tocca le sue punte emotive più alte, tra flashback e salti temporali, piccole azioni quotidiane, dialoghi e flussi di coscienza allo specchio declinati al plurale, anche con il pubblico: toccato da quadri come “tableaux vivants” che a tratti assumono tinte caravaggesche dalle «Sette opere di misericordia» o pose da «Pietà» michelangiolesca; a tratti materializzano la violenza cieca di chi non è più padrone di sé stesso; oppure suggellano, nella nudità di una coppia fusa nella penombra di gesti amorosi di cura, in un lavacro simulacro della memoria dei corpi, il radicale ribaltamento di ruoli ai quali la vita spesso costringe: diventando madri dei propri compagni di vita, figli dei propri figli, genitori dei propri genitori. E nel precipitare degli eventi irrompe allora la rabbia della Figlia, che a tu per tu con Dio si sfoga con un’invettiva: «Pensi davvero di renderci migliori, torturandoci come stai facendo? Che tu sia lodato. Ma non da me». E monta la disperazione rassegnata della Moglie e Madre, Anna, che dopo aver tentato di rifiutare l’evidenza della realtà, di fuggire dall’orrore di una metamorfosi non prevista e per lei insostenibile, lasciandosi andare al rimpianto del passato - quando nacque quell’indissolubile legame d’amore - confessa spossata, con struggente dolcezza: «Anche se sei accanto a me, mi manchi». E poi, balugina  l’unico sprazzo di lucidità del Padre nella nebbia, che a un certo punto, confessando il suo unico desiderio di vedere felici le sue due donne, sussurra malinconico: «Io voglio solo vivere la mia vita e questa non è la mia vita».

Nel suo debutto drammaturgico Fresa ci ricorda che «a volte resta solo il profumo delle cose, delle persone. Il ricordo del loro odore. Ma quando nemmeno i ricordi ci sono più, cosa resta?». E la domanda di senso, resa ancora più attuale dalla perdurante pandemia, aleggia e resta sospesa tra gli spettatori. Perché non è facile trovare le parole per dirlo e per accoglierlo, l’Alzheimer. Al cinema, ci è riuscita con grande intensità Julianne Moore, premio Oscar per la sua interpretazione della linguista Alice Howland nel film «Still Alice» di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, tratto nel 2014 dal romando «Perdersi» della neuroscienziata Lisa Genova (Piemme 2007). A teatro, per citare solo due esempi, ci hanno provato tra gli altri, con molteplici punti di vista e finalità umanitarie, l’attore Marco Giulio Magnani e la danzatrice Sara Filippucci (in «Il filo dei ricordi»), o Alessandro Haber e Lucrezia Lante Della Rovere, cimentandosi nel pluripremiato testo «Il Padre» di Florian Zeller. Con Paola Fresa, e l’interpretazione empatica del suo affiatato gruppo di compagni di scena e tessitura relazionale che anche nel condividere i morsi di una mela trasmettono legami nutrienti, la magia del teatro diventa vita. Vissuta. E la minaccia che incombe sul presente/futuro di ciascuno si trasforma così in una coinvolgente testimonianza/inno all’amore, più che in una narrazione asettica e angosciante di una malattia e di una morte. Invitando a riflettere sulla solidarietà necessaria per restare, sempre e comunque, umani.

© RIPRODUZIONE RISERVATA