Al Mann omaggio all'Unità d'Italia (e non solo) con un grande allestimento dell'Associazione Presepistica napoletana

Al Mann omaggio all'Unità d'Italia (e non solo) con un grande allestimento dell'Associazione Presepistica napoletana
di Donatella Trotta
Mercoledì 29 Dicembre 2021, 11:55 - Ultimo agg. 13:42
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Il presepe napoletano non è solo «una pagina del Vangelo tradotta in dialetto partenopeo», come amava affermare Michele Cuciniello (1823-1889) che, nel 1879, fece dono della sua straordinaria collezione di 800 pastori dell’arte presepiale del ‘700 al Real Museo di San Martino. È un culto. Sacro e profano. Che coinvolge trasversalmente tutti i ceti sociali. È un rito, che nella cura di una tradizione antica unisce generazioni diverse ma anche cielo e terra, umano e divino, realtà e fantasia. Ed è una rappresentazione simbolica della “commedia umana”, fitta di rinvii ben oltre le scene portanti che raccontano l’evento spartiacque della Storia (la Natività del Cristo, l’annuncio ai pastori) e i luoghi emblematici che l’accompagnano: la grotta, la fontana, il pozzo, la taverna… Perché il presepe napoletano è, soprattutto, una narr/azione condivisa. Che puntualmente si rinnova, con una variegata gamma di citazioni, rimandi e nessi tra passato, presente e futuro verificabile nel fiorire in città, per le festività natalizie, di allestimenti temporanei accanto a quelli stabili, con tanto di celebrities di turno omaggiate sulla scena del presepe: ad attualizzare così, ogni anno, un messaggio antico. Tramandato da genitori a figli.

«Nel raccontare una storia antica ma sempre rinnovata, nel tradurre plasticamente i valori della religione cristiana contestualizzandoli anacronisticamente nel paesaggio dell’Italia meridionale, il presepe napoletano raccoglie in sé la storia, la tradizione e le credenze popolari in un insieme in cui i personaggi canonici del Vangelo si fondono con il popolo, dando vita a una macchina scenica in cui l’apparente disordine nasconde un imprescindibile progetto precostituito: in questo senso, il presepe napoletano è un “bene comune”, la cui peculiarità è quella di essere il logos in cui si annullano le differenze sociali, di cultura, di lingua, di colore della pelle», commenta l’architetto Vincenzo Nicolella, non a caso curatore di una mostra, dal titolo «1861. L’Unità d’Italia nell’arte presepiale napoletana. Riflessi ed evoluzioni di stili», allestita nel monumentale Atrio del Museo Archeologico Nazionale di Napoli fino al 10 gennaio e realizzata da oltre quaranta eccellenti artigiani/artisti della storica Associazione Presepistica Napoletana – Ente culturale no profit fondato il 9 novembre 2002 con l’obiettivo di diffondere con ogni mezzo la cultura presepiale – con un corredo di visite guidate (domani, 30 dicembre alle ore 17, la prossima) e laboratori di arte presepiale, per adulti e bambini. E mentre è in corso, come di consueto, anche la XIX edizione della tradizionale Mostra di arte presepiale dell’operosa, instancabile e meritoria Associazione Presepistica Napoletana, presieduta da Adriana Bezzi Carbone e ospitata quest’anno nella Basilica dello Spirito Santo in via Toledo (piazza Sette Settembre 34), la mostra al Mann spicca - nello scenario complessivo di altri pur pregevoli allestimenti in diversi quartieri della città - per l’originalità nella scelta e nello sviluppo narrativo (preziosamente didattico, a seguirne la trama e le provocazioni) del tema: l’Unità d’Italia, proprio a conclusione dell’anno che celebra i primi 160 anni della sua nascita.

Una progettazione complessa e scenograficamente articolata, quella della mostra «L’Unità d’Italia nell’arte presepiale napoletana», riscontrabile in ogni minuto dettaglio della stupefacente scenografia a più mani, frutto di un meticoloso lavoro di gruppo, come pure negli innumerevoli accessori e nelle accurate vesti delle splendide figure presepiali intente in varie azioni: sullo sfondo di antichi ruderi e masserie, paesaggi rurali e banchetti con souvenir, marionette e riproduzioni di maschere (tra cui un ritratto con il volto scoperto di Antonio Petito, “ultimo Pulcinella”), carretti di ceramiche, antichi mestieri (ispirati alle incisioni di Filippo Palizzi realizzate tra il 1853 e il 1866 per l’opera di Francesco de Bourcard Usi e costumi di Napoli e dei suoi contorni descritti e dipinti) e convegni di briganti e brigantesse (come la fiera Michelina De Cesare, in posa pacifica e sorridente, senza il fucile imbracciato, con il suo suo amato compagno accanto a una giumenta con il basto ricolmo di frutti e verdure tipici dell’area napoletana. E poi cortei di zampognari, musicisti di strada, tamburini, angeli guardiani e tavole imbandite, templi e fontane, banchi di frutta e formaggi e aree di scavo archeologico (molteplici gli omaggi espliciti al MANN e agli studiosi e archeologi che ne hanno fatta grande la storia e le sue collezioni), giochi di strada di scugnizzi festanti e greggi di armenti, animali domestici o da cortile e cacciatori, accanto a guappi e nobili, soldati garibaldini, borbonici, persino carabinieri e bersaglieri, in un rutilante avvicendarsi di frammenti di Storia rivisitata sino all’Evento – l’attesa Natività – dove i re Magi sono sostituiti, a sorpresa, da tre figure che identificavano idealmente i principali territori della penisola italiana unificati nel 1961, ma qui ritratti senza gli orpelli del loro potere, in adorazione del Messia in fasce: Papa Pio IX, l’ultimo “Papa Re”, Francesco II di Borbone, l’ultimo re di Napoli e Vittorio Emanuele II di Savoia, il primo re della neonata Italia, tutti e tre accomunati dall'incanto al cospetto della Sacra Famiglia e del Divino Bambino Gesù.

“Licenza artistica” che costella anche molte altre scene meno centrali ma non meno importanti di questo singolare “presepe dell’Unità d’Italia”: simbolicamente rappresentata soprattutto da due statue, realizzate in scala. La prima è una fedele riproduzione della grande statua di Dante Alighieri (ulteriore omaggio al Padre della lingua italiana nel settecentesimo anniversario delle sue celebrazioni), attualmente collocata nell’omonima piazza napoletana: statua voluta dal patriota e letterato Luigi Settembrini, fondatore nel 1862 della “Società Dantesca” per la realizzazione dell’opera, finanziata da una lunga raccolta fondi che coinvolse molti cittadini napoletani, sostenitori del monumento simbolo autorevole dell’identità e dell’unità del popolo italiano, collocato il 14 luglio del 1871 in piazza Dante a Napoli con l’iscrizione: «All’Unità d’Italia raffigurata in Dante Alighieri, 1862-71». La seconda è la statua dell’”Italia turrita e stellata” di Francesco Liberti, attualmente situata nel cortile dei Giardini d’Italia nel Palazzo Reale di Napoli. Ma non mancano, nell’imponente scenario, altre figure-chiave del Risorgimento italiano: Giuseppe Garibaldi, intento in un angolo della scenografia a contemplare malinconicamente uno stivale, emblema di un’Italia da unificare; e un Camillo Benso conte di Cavour, che in una taverna dietro il “cellaio” (lontano chilometri, come le Langhe del suo amato vino Barolo) del suo castello di Grinzane Cavour, degusta vini campani inebriato non (sol)tanto dal calice innalzato ma anche dalle grazie di una prosperosa giovane popolana partenopea.

Tra le altre citazioni significative annidate nel percorso dello sguardo, in mezzo ai pastori ci sono pure Filippo Palizzi con il suo carteggio di disegni e bozzetti, che si guarda intorno in cerca di personaggi da ritrarre, mentre Giuseppe Fiorelli, primo direttore postunitario del Museo Archeologico Nazionale e sovrintendente agli scavi di della domus di Agrippa Postumo a Boscotrecase, ritratta nel presepe sul principio della sua scoperta, si aggira tra i resti archeologici riprodotti con le atmosfere del tempo delle riscoperte di Ercolano e Pompei e della nascita dell’Accademia Ercolanese. Non manca, nella scenografia, un tempietto ionico che rinvia a quello del belvedere della Villa Floridiana al Vomero (fatta realizzare nel 1817 in perfetto stile neoclassico da Ferdinando IV per la moglie Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, ad opera dell’architetto Antonio Niccolini, accanto a finte rovine realizzate (nei giardini all’inglese di residente nobiliari e di corte) nel presepe con ruderi di antiche architettura secondo un variegato repertorio fedele a schemi compositivi tardo seicenteschi, a cui si aggiungono dettagli evocati dalle tele di Leonardo Coccorante e Filippo Falciatore, o dai “capricci” scenografici di artisti che operavano per committenti di élite, come Lorenzo Mosca o Francesco Celebrano.

Non solo: l’omaggio esplicito al Mann, guidato oggi con lungimirante apertura da Paolo Giulierini, si riverbera nella scena di questo presepe monumentale anche in certe architetture ispirate all’affresco con veduta paesistica dall’ekklesiasterion del Tempio di Iside a Pompei (conservato nelle sale dedicate al secondo piano del Mann); o nella scena delle lavandaie, ispirate nelle vesti e nelle movenze alle statue delle Danaidi, le cosiddette Danzatrici della Villa dei Papiri di Ercolano (custodite anch’esse al secondo piano del Mann), ma echeggianti anche le protagoniste del Canto delle lavandaie del Vomero del XIII secolo, tra i primi esempi di canzone popolare presente anche nell’opera La Gatta Cenerentola, mentre ballano al ritmo di tammorra con garibaldini in calzoni e maglia di lana tra bucati soldateschi e lenzuola candide stesi al sole, sotto lo sguardo vigile di un’anziana vestita interamente di nero: a simboleggiare il colore del lutto delle donne del Sud, chiuse nel loro dolore per la perdita di un marito, un figlio, un fratello o un padre. Ma l’apice delle citazioni/provocazioni dotte è nella figura della Madonna col puttino sulla spalla e della giovane con il bambino (la Stefania della tradizione presepiale), riproduzione plastica di Afrodite con Anteros e della Ninfa con Eros punito, dall’affresco nel tablino della Casa dell’Amore punito a Pompei, mentre il San Giuseppe riproduce il vecchio filosofo dell’affresco raffigurante una corte ellenistica dalla Villa di P. Fannio Sinistore a Boscoreale (entrambi gli affreschi conservati nelle sale del Mann).

Un elaborato e ambizioso gioco di rinvii e rimandi, insomma, che consente (con l’aiuto di una sapiente guida, s’intende) un viaggio non soltanto nella simbologia dell’arte presepiale ma anche nella recente storia d’Italia riproposta a visitatori contemporanei di ogni età, distratti dalla disintermediazione digitale e poco inclini a coltivare una memoria storica attiva: quella che per un premio Nobel della letteratura non è tanto ciò che ricordiamo, quanto ciò che ci ricorda. Ma l’intento di questa mostra è soprattutto uno, ci spiega in conclusione il suo appassionato ideatore, Vincenzo Nicolella: «In tanto festoso e variegato assembramento, è il messaggio evangelico dell’unità di popoli e intenti a raccogliere qui tutte le figure presepiali, vecchie e nuove, sotto un ideale vessillo di pace in un’atmosfera idilliaca e serafica. Gli uomini e le donne coinvolti nell’unificazione dell’Italia, riconoscibili nei tratti somatici o negli abiti e divise ma confusi nella folla e intenti ad ammirare lo spettacolo della Natività senza alcuna ostentazione di ceto, di gradi o di ruoli, diventano i “nuovi pastori” della meraviglia del presepe, attori e interpreti, con gli altri, delle milleuno storie che nascono da quella Storia di speranza. E di salvezza».

Un bel messaggio, per chiudere l’anno ai tempi del Covid.

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