Caporaso e «Il signor conchiglia», quando un bambino segna il bivio tra ospitalità e ostilità

Caporaso e «Il signor conchiglia», quando un bambino segna il bivio tra ospitalità e ostilità
di Donatella Trotta
Mercoledì 16 Novembre 2022, 17:24
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Se il buon giorno si vede dal mattino, come recita un vecchio adagio che peraltro ben si presta al nome della nostra testata, è invece dalle dediche dei libri che si comprende la poetica di un autore. Gianluca Caporaso − il quale ama definirsi «un lettore e un narratore, che prova ad accendere fuochi per radunare persone e trovare ragioni per camminare insieme» − lo conferma con gli endecasillabi che aprono, in epigrafe, il suo ultimo libro (imperdibile, in tempi di rinnovato dibattito su sbarchi, respingimenti e accoglienza), intitolato Il signor conchiglia: «Dedico queste pagine gentili/ a chi saluta i fiori nell’aiuola/ e in questo tempo di pensieri ostili/ semina un benvenuto a squarciagola». Perché Caporaso, cantastorie affabulante e itinerante per l’Italia (dove conduce laboratori di scrittura fantastica per bambini, educatori, genitori), infaticabile e creativo promotore culturale (anche con il festival La città delle infanzie, da lui ideato a Potenza dal 2017), è soprattutto un poeta. Ma nell’accezione che ne dà Maria Luisa Spaziani: ossia, “un sognatore che ce l’ha fatta”. Perché è un autentico giocoliere delle parole come microcosmi di coscienza. E perché Caporaso, profeta involontario ma niente affatto inconsapevole del pensiero poetante − come tutti gli artisti veri, gli esploratori dell’esistenza onesti intellettualmente e i visionari capaci di guardare oltre, verso l’altro −, sa inanellare con leggerezza, grazia e profondità carezzevoli incanti letterari su temi eticamente sensibili della contemporaneità. Tessendo, così, trame relazionali e di comunità con il filo delle storie che parlano al cuore di ciascuno. Adulto o bambino che sia.

Premessa indispensabile per assaporare come merita Il signor conchiglia, il suo nuovo libro-mondo in apparenza per ragazzi, di fatto per tutti, al di là dei generi, del bene e del male. Dopo averci donato la magica raccolta di rime “sulla vita che viene e che va”, con le ispirate filastrocche di Tempo al tempo (Salani 2021: summa antropologica, filosofica ed esistenziale dalle molteplici potenzialità anche pedagogiche, oltre che drammaturgiche), ne è infatti prova, ora, più che lampante appunto Il signor conchiglia (Salani editore, pp. 144, € 13,90, illustrazioni di Giulia Tomai, con Il barbiere di Kobane, Postfazione di Annalisa Cuzzocrea): un piccolo, prezioso oceano dei fiumi di racconti che possono scaturire da un fatto di cronaca trasfigurato e sublimato, da chi ha la sensibilità vibratile per farlo con rispetto, sapienza e infinita pietas, in fiaba. Poetica. Ma anche in narrazione avventurosa e, a tratti, sottilmente metaletteraria, dal timbro potente che risuona e permane a lungo nel lettore. La cronaca (sinistramente attuale, malgrado siano passati ormai anni) risale al 3 settembre 2015: quando, sul bagnasciuga di una spiaggia turca nei pressi di Bodrum, il mare restituì il corpo di Alan Kurdi, tre anni, naufragato con la sua famiglia in fuga dalla Siria in cerca di pace.

La maglietta rossa di Alan, nella foto della giornalista Nilüfer Demir che fece il giro del mondo, ha segnato l’immaginario collettivo. Ma per Caporaso quel bambino è diventato un’ossessione: un amico immaginario sempre presente. E un interlocutore a cui regalare una storia, per restituirgli un’identità, qualche sogno ancora da sognare (ciascuno cresce solo se sognato, diceva Danilo Dolci) ed eternarne la memoria. Nell’unico modo possibile per un cantastorie: narrando. Perché «chi racconta le storie costruisce legami».

In ffelice contrappunto con le nitide tavole bianconere di Giulia Tomai, Caporaso compone così la sua melodia “in nostalgia del canto” e della vita in boccio, tra prosa e poesia. Non a caso, ogni capitolo delle avventure atemporali di Alan – abitante, nel libro, della città natale di Ognicò ma non nel quartiere ricco di Pansachiè, bensì in quello povero di Pansavacà – è aperto da versi in rima e chiuso da aforismi gnomici, a rafforzare il senso ultimo di questa saga fantastica, a tratti ironica e in ogni pagina avvincente che tra sinestesie, fantasiosi giochi di parole (come quelli sui nomi del mare), avventure intrise di realismo magico e condite da seducenti neologismi (i gesti di cura della signora Baci, che con il marito Filemo echeggia, nel libro, il mito ovidiano sulla virtù dell’ospitalità di Filemone e Bauci) rinvia ad altri libri, mondi, civiltà mediterranee. E non solo.

Le metamorfosi di Alan, con i suoi nomi-destino (“scudo” e “acqua che scorre”, “Liscadipesce” e “signor conchiglia”), bambino un po’ Colapesce e un po’ piccolo ulisside innamorato del mare, figlio della nostalgia (per la sua terra, per la mamma Fatma, per il padre barbiere Abdullah, per l’amico pescatore Ulisse) e ostinato cerca(u)tore di felicità, sono anche un mosaico iniziatico di una formazione come diritto universale ancora oggi, troppo spesso, negato. Caporaso ha il talento di com/muovere e smuovere i lettori, senza rimuovere le brutture del mondo ma oltrepassandole. Capovolgendo stereotipi attraverso parole-ponti di gentilezza, che nutrono l’immagin/azione trasformante. Il suo libro, attualissimo eppure antico, esorcizza così paure irrazionali fomentate da sovranismi insensati, ridona senso alla parola hospes contrapposta a hostis e – soprattutto − rilancia tra le righe una (cor)responsabilità educante in modo mai pedante né pesante ma evocativo, che molto più di una denuncia o di un appello accende scintille di pace e coltiva speranza. Custodita nelle parole che possono (anche) salvare.

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