Il Rabbino Di Segni a Napoli:
memoria e dialogo, strumenti di pace

Il Rabbino Di Segni a Napoli: memoria e dialogo, strumenti di pace
di Donatella Trotta
Domenica 2 Aprile 2017, 11:51 - Ultimo agg. 3 Aprile, 20:33
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«Il boicottaggio nei confronti di Israele? È un segno triste, che si manifesta quando si ritiene che non esistano più margini di dialogo e si sceglie la logica violenta di abbattere un avversario, non certo quella dell’incontro e dell’accoglienza di punti di vista diversi, preludio di pace».

Non usa mezzi termini Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, per commentare la polemica innescata dalla scelta del sindaco Luigi De Magistris di concedere la sala consiliare di Napoli al Movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), che ha suscitato la reazione della Comunità Ebraica di Napoli, sostenuta anche da una manifestazione promossa in Via Verdi) dai Radicali napoletani, che condannano quella che definiscono «una campagna populista e violenta» dell’amministrazione comunale contro la comunità ebraica, «fomentando odio attraverso antagonismi». Di Segni è intervenuto ad un incontro dal titolo «La Memoria fondamento della Pace», presieduto dal cardinale Crescenzio Sepe, coordinato da Massimo Milone e promosso dall’Arciconfraternita dei Pellegrini in un percorso di riflessione ispirato da un aforisma di Papa Francesco: «La strada della pace è il dialogo». A dialogare con il Rabbino, dopo i saluti di Don Tonino Palmese a nome del Primicerio Vincenzo Galgano, anche Francesco Paolo Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale.


Rav Di Segni, come legge questa singolare coincidenza tra le vostre riflessioni e il clima conflittuale creato in città? 
«Esistono due piani di lettura: il primo, che riguarda il mio specifico àmbito di competenza per cui sono a Napoli a portare una testimonianza, è quello religioso: non esiste una guerra tra ebrei e musulmani, esiste un conflitto arabo-israeliano: e questo è il secondo piano. Politico. Confondere i due piani non giova a nessuno. Ma bisogna convincersi che la pace non è una parola, è un cammino. Che va costruito con il dialogo, il confronto tra opinioni differenti, l’incontro e non lo scontro tra diversi. Non basta ripetere “pace” come uno slogan per realizzarla, ma occorre impegnarsi per la giustizia e la verità, per renderla possibile. Questo messaggio va oltre gli elementi conflittuali della politica, tanto più se locale: l’orizzonte della questione è più ampio, e variegato. E dovrebbe evitare alcune semplificazioni e trappole retoriche».

Quali?
«Ad esempio, l’uso (e l’abuso) della parola “memoria” e “pace”: da un lato, con i rischi micidiali di negazionismi, eccessi e intolleranze etniche, riduzionismi e banalizzazioni storiche; dall’altro lato con una retorica pacifista altrettanto micidiale, perché basata superficialmente su rozze contrapposizioni tra buoni e cattivi che perpetuano solo un meccanismo inveterato (e patetico) di certa mitologia di sinistra anni ’60, che crea solidarismi a senso unico. E trovo assurdo che, oggi, ci si concentri su un aspetto particolare di un conflitto come quello palestinese-israeliano ma si resti poi indifferenti di fronte alle spaventose atrocità che a poca distanza da quei confini l’Isis sta attuando, tra Siria e Iraq. È un modo distorto di guardare la realtà».


Anche il dibattito sulla rifondazione dell’Europa non è esente da queste responsabilità: l’Ue non è forse nata dalla tragedia della Shoah? 
«Certo.
Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale la prospettiva europea è cambiata, con un enorme progresso di civiltà. Ma oggi siamo in bilico su una pericolosa regressione. E l’esercizio della Memoria è un importante strumento di identità e conoscenza della realtà, di cui non si può fare a meno. Tanto più in un momento in cui gli ultimi testimoni della Shoah stanno scomparendo. In questa delicata fase di transizione e trasmissione alle nuove generazioni, abbiamo il dovere di essere custodi della Memoria».
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