Tamaro: «La mia piccola tigre
viaggia alla ricerca dell'assoluto»

Susanna Tamaro
Susanna Tamaro
di Donatella Trotta
Venerdì 23 Settembre 2016, 12:23 - Ultimo agg. 25 Settembre, 21:42
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A Pordenonelegge, dove ha presentato in anteprima il suo nuovo e atteso romanzo La tigre e l’acrobata (La Nave di Teseo, pp. 184, euro 16), è stata avvicinata da un giovane irakeno di Bassora. Il ragazzo, visibilmente provato, ha voluto abbracciarla e le ha detto: lei ha salvato la mia vita. Susanna Tamaro si emoziona ancora, mentre rievoca questa intensa quanto inattesa esperienza: «È venuto apposta all’incontro per dirmelo – ricorda dalla sua casa nella campagna umbra, di ritorno dal festival friulano – perché aveva letto in arabo Va’ dove ti porta il cuore e mi ha confessato di aver trovato in quel libro la forza per emigrare».

Potenza invisibile della letteratura. Ventidue anni (e oltre trenta libri) dopo il successo planetario di quel long seller tradotto e venduto con 16 milioni di copie in tutto il mondo, e due anni dopo il suo ultimo romanzo per bambini (Salta, Bart!, Junti junior, vincitore della prima edizione del premio Strega ragazze e ragazzi), Tamaro ritorna ora in libreria con un’opera molto particolare: quasi una piccola summa dei principali nuclei tematici della sua ricerca (esistenziale, narrativa e spirituale). La tigre e l’acrobata è infatti un lungo racconto di affabulazione pura, una sorta di fiaba per adulti in quanto romanzo iniziatico, apologo morale e sapienziale e parabola allegorica, godibile tuttavia anche da lettori più giovani come storia di formazione e visionaria favola ecologica di sapore orientale, che echeggia a tratti le visioni mistico-naturalistiche del precedente Il grande albero (Salani) o le emozioni del protagonista di Per sempre (Bompiani).

«È vero – ammette la scrittrice – sono tornata al mondo del fiabesco, che ho molto letto e analizzato da ragazza, perché è un genere letterario che nella sua dimensione aperta offre importanti chiavi di decifrazione della realtà. Ma se finora ho sempre riservato lo spazio della fantasia ai racconti per bambini e quello della realtà razionale ai lettori adulti, in questo libro ho invece mescolato i due piani, riservando così anche ai grandi un orizzonte fantastico. Perché sento che in questo momento storico il nostro immaginario ha bisogno di nutrirsi di qualcosa di diverso, che vada oltre il mondo claustrofobico, disperato e alla deriva in cui viviamo. Abbiamo bisogno di simboli universali, per comprendere che dietro ogni caos c’è un ordine. Per rompere la scorza della realtà quotidiana occorre però un uso accorto e non banale della parola, delle metafore folgoranti, da miscelare come un alchimista della scrittura. E questo è un lavoro che costa grandissima fatica: come quello di una ballerina, che dietro la grazia suoi movimenti in apparenza tanto facili e lievi cela un duro apprendistato e allenamento per conquistare quell’armonia».

Ma come nasce, di fatto, questa nuova prova narrativa, che con una cifra stilistica di nitida eleganza spesso poetica intreccia appunto leggerezza e profondità, provocando il lettore con domande ultime e penultime di senso che attingono ai Libri sapienziali d’Occidente e Oriente, con una forte venatura cristiana? «È stata una genesi nata per caso, da figure dell’inconscio che affioravano mentre tenevo la mia rubrica Un cuore pensante su “Avvenire”, poi raccolta in volume per Bompiani: nei miei appunti era soprattutto l’immagine della tigre, della bambina tigre a ricorrere con insistenza. Finché ho capito che si stava delineando il nucleo di qualcos’altro, forse un nuovo libro. E l’ho messo da parte. Ma la gestazione, poi, è stata molto sofferta e difficile. È durata due anni: un tempo insolitamente lungo, per me, segnato da battute d’arresto e fasi di blocco che non mi è mai capitato di provare con tale intensità. E io che non sono mai stata depressa ho avuto allora momenti di depressione, con la disperante sensazione di non riuscire a farcela, a portare a termine il lavoro. Mi fermavo sull’orlo di un abisso, di un baratro che non riuscivo a oltrepassare. Poi, all’improvviso, si è aperta una porta e sono giunta alla meta. Una grazia, per me. E – spero – un dono per i miei lettori».

La piccola tigre siberiana protagonista del libro, nata e cresciuta nella taiga con la madre e il fratello, è una creatura curiosa, affascinante e molto diversa da quelle della sua specie, un po’ come l’Uomo sciamano con il quale entra in contatto e che segnerà la sua vita con un secondo apprendistato, dopo quello della Madre. È una creatura libera e solitaria, ma bisognosa di relazioni autentiche, che si pone domande, che cerca risposte, che non si accontenta di sentieri già tracciati, non si piega alle aspettative degli altri e ha il coraggio di andare oltre la sua stessa natura, pagando per questo un prezzo, come il suo amico. Quanto c’è di Tamaro nella tigre? La scrittrice sorride e ironizza, parafrasando Flaubert: «La tigre…c’est moi. In effetti, l’immagine della tigre è molto cara a chi, come me, pratica arti marziali: questo animale forte, coraggioso, maestoso è l’ideale di ogni praticante nel perseguire la sua flessibilità, potenza, eleganza e distacco che ne fanno una creatura nobile, perché agisce senza secondi fini: anche quando uccide altri animali, non lo fa per aggressività fine a se stessa ma per la sopravvivenza, rispettando il rigore delle leggi della natura. Forse non a caso un poeta cristiano come Thomas Stearns Eliot parla di “Cristo la Tigre”, con un’analogia che ho ritrovato anche in altre letture teologiche».

Il regno degli umani, rispetto a quello animale, non esce tuttavia molto bene da questa favola allegorica. Ad eccezione dello sciamano, del bambino acrobata e dell’Uomo di stracci (un clochard che, come il bimbo, aiuterà la tigre a sfuggire alla sua prigionia in un circo). I quali - non a caso - sono i soli, con una bambina poi risucchiata dall'omologazione, ad avere lo sguardo, e la voce, per comunicare con la tigre (come San Francesco con le creature della natura). Mamma tigre arriva addirittura a ipotizzare che «è l’essere umano il principio della disarmonia», perché uccide non per necessità ma solo per il gusto di uccidere, di più: «per invidia». Affermazione dura, Tamaro, che sembra adombrare l’aumento di violenza efferata contro le donne, contro i più deboli, amplificata a dismisura dai social media, come nei casi di questi ultimi giorni… «Già. La verità è che abbiamo perso, oggi, qualsiasi radice degna di questo nome, che ci illumini sul senso della vita. Così la bestia esce fuori e prende il sopravvento la più feroce natura istintuale dell’uomo. Il rapporto tra uomini e donne risulta alterato, malato per l’incapacità soprattutto maschile di gestire ed elaborare la complessità: si è sottovalutata la dinamica, tipica dei videogiochi capaci di plasmare il cervello sul modello della realtà virtuale, che per eliminare il problema basta eliminare la persona. Il fatto è che stiamo così assistendo a una doppia follia, perché la bestialità senza freni che sta dilagando non è quella del regno animale, in cui gli istinti sottostanno comunque a regole non scritte, ma è quella di una sedicente “libertà” che rispecchia l’eclissi totale della coscienza e del pensiero individuale: ossia, ciò che dovrebbe differenziarci dagli altri animali. Io seguo molto la cronaca e trovo sconvolgente che in tutti gli omicidi degli ultimi vent’anni la frase ricorrente dei rei confessi sia: ho fatto una c…, ho fatto una “bischerata”. L’unico che abbia espresso rimorso e addirittura gratitudine per essere stato arrestato, che io ricordi, è l’assassino della contessa Filo della Torre all’Olgiata. Tutti gli altri negano sempre, comunque, senza alcuna pietà per le loro vittime, cercando solo sconti di pena per i loro crimini con una indifferenza glaciale».

Ma quanto influisce la tecnocrazia imperante (già denunciata in altri libri di Tamaro) su questa glaciazione delle passioni e su questo dilagare di un cinismo rappresentato, ne La tigre e l’acrobata, dai corvi? «Moltissimo, a mio avviso. La prigionia elettronica è come un cappio che ci stringe il collo, basta un clic e nella rete si muove, a ondate, una marea di negatività, con un’omologazione feroce che tende ad annullare le personalità individuali come a rimuovere ciò che viene considerato problematico (malattie, disabilità, vecchiaia, morte), fino a rendere la vita un frullato senza sapore. Si postano continuamente immagini, filmati, selfies come effimere autocelebrazioni esibizionistiche che cancellano lo spazio intimo, privato, la dimensione riservata di una solitudine pensosa, indispensabile per riflettere sul mistero della vita, sul tempo e l’eterno, sull’origine e la fine. Mi sembra emblematico lo slogan pubblicitario di un gestore telefonico che ho ricevuto sul mio cellulare: “Ti diamo le risposte prima ancora che tu ti facciale domande”. Un eloquente segno dei tempi. Il messaggio è: tu non devi porti domande, pensiamo a tutto noi. Così si appianano falsamente gli ostacoli che sono parte costitutiva della vita, e viviamo costretti in un tempo brevissimo, messi nell’angolo come nello spazio di un ring di pugilato, dove l’accanirsi contro, il costante linciaggio dei più vulnerabili, dei diversi, diventa la modalità comunicativa dominante. Con le conseguenze che vediamo, nell’attuale, estrema povertà spirituale. È necessario un cambio di orizzonte, un respiro più ampio».

Che ruolo ha la Chiesa di papa Francesco in questo contesto? «La Chiesa ha una responsabilità enorme. Ma sbaglia quando si limita a predicare le buone azioni, a restare sulla superficie delle grandi questioni perché essere buoni, il buonismo non bastano né aiutano la deprivazione contemporanea di senso e l’attuale impoverimento mistico del cristianesimo, sepolto dalle chiacchiere. Serve una lettura della realtà più profonda, che trovi il coraggio di tornare a parlare di eterno, di giudizio, di infinito, di assoluto e di Novissimi senza timidezze. Ma ho la sensazione che la Chiesa abbia paura a parlare di questo, in parrocchie che perciò si svuotano mentre crescono le derive delle sette, o le seduzioni di letture “assolutistiche” della realtà come quelle sanguinarie proposte dal Daesh. Papa Francesco viene dall’America Latina, e ha un’idea sociale del cristianesimo. Ma non sarebbe male tornare, anche nell’educazione dei bambini, alle questioni escatologiche poste dai Novissimi, alla legge della trasformazione che domina la vita, allo stupore scaturito dal mistero che ci genera e ci accoglie e che è la prima condizione della nostra umanità. Vedo troppi ragazzi disperati in giro: dopo la prima comunione, si fermano e non vanno oltre nella ricerca della verità, guardando al futuro con angoscia come a una bolla di vuoto, piena di nulla. Anche per questo ho sentito il bisogno di scrivere La tigre e l’acrobata, riflettendo sulla fede, il potere, la grazia, la redenzione in forma di favola. Dove ciascuno, alla fine, può trovare il proprio sentiero nella via di una ricerca che accomuna tutti i cuori pensanti».
 
 
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