Quote rosa, 10 anni di buone sorprese (ma l'Italia è ancora indietro per la parità nelle aziende)

Quote rosa, 10 anni di buone sorprese (ma l'Italia è ancora indietro per la parità nelle aziende)
di Valeria Arnaldi
Sabato 12 Giugno 2021, 06:38 - Ultimo agg. 19 Febbraio, 15:28
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«Da giovane, ero contraria alle quote. Poi, ho capito che era l'unica soluzione possibile. Quando ho presentato la proposta di legge, la Banca d'Italia aveva calcolato che sarebbero serviti cinquant'anni per giungere un tetto di 30% di donne nei posti di comando. Ne abbiamo impiegati dieci anni e siamo arrivati quasi al 40%. Abbiamo raggiunto il traguardo e siamo andati oltre. Il bilancio è, dunque, assolutamente positivo. C'è ancora da fare, però». A dieci anni dall'entrata in vigore della legge Golfo-Mosca, relativa alla presenza delle quote rosa nei Consigli di Amministrazione delle società quotate e partecipate, Lella Golfo, sua promotrice con Alessia Mosca e presidente della Fondazione Marisa Bellisario, commenta così i traguardi raggiunti. Un cammino che va avanti e finora ha dimostrato di essere necessario.

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I NUMERI
Stando ai dati del Rapporto Cerved-Fondazione Marisa Bellisario 2020, sulle donne ai vertici delle imprese, realizzato con Inps, nel 2008 le donne nei Cda delle società quotate erano 170, ossia il 5,9%, oggi sono 811, il 36,3%.
Nei collegi sindacali, nel 2012 erano 13,4%. Sono diventate 41,6% nel 2019, 475 i sindaci donne. L'Italia è, con Francia, Svezia e Finlandia, tra i pochi Paesi europei ad aver superato il tetto del 30% nei CdA.
Nelle controllate pubbliche, la percentuale, seppure cresciuta nel tempo, è più bassa: 28,4%. «Dove le nomine le fa la politica - sottolinea Golfo - la percentuale è più bassa, perché non si mettono d'accordo o lo fanno sul nome di un uomo».
Nelle società non soggette alla legge Golfo-Mosca, è 17,7%.

Non solo. Nelle quotate, le donne amministratore delegato rappresentano soltanto il 6,3%, le presidenti il 10,7%. Secondo una recente ricerca Equileap, l'Italia rimane comunque dietro gli altri grandi paesi europei per l'equità tra uomini e donne nelle quotate, nonostante sia ai primi posti in Europa per presenza di donne nei CdA. Ogni Paese, nello studio, riceve un voto.


LA VALUTAZIONE
Per l'Italia è 42%. Più basso di Germania, con 44%, Spagna, 46%, Svezia, 49%, e Francia, con 52%. Stando alle ultime stime del World Economic Forum, inoltre, per colmare il divario di genere economico serviranno oltre due secoli, per la precisione 257 anni. E la pandemia ha aggravato situazione e distanza. Ecco la strada ancora da percorrere.
«Abbiamo fatto passi da gigante ma ci siamo fermati all'obbligo - prosegue Golfo - non siamo andati oltre. Il tema è principalmente culturale. Quando ho pensato alla legge, credevo che le donne nei CdA avrebbero dedicato molta più attenzione alle altre donne, e in particolare a quelle nelle aziende. Purtroppo, non è avvenuto. Chi ce la fa per prima, dovrebbe mandare giù l'ascensore per far salire altre donne, invece l'ascensore si è fermato a metà».


L'ANALISI
Perché è accaduto? «Secondo me - afferma - perché certe battaglie costano e forse non tutte sono disposte a rinunciare a qualcosa. Le battaglie io le ho fatte e le ho vinte. Penso anche a questa per le quote di genere. Se me fossi stata zitta e buona, forse sarei ancora in Parlamento». Sulla parità di genere nei CdA, a dieci anni dalla legge, è incentrata una ricerca SDA Bocconi, condotta da Simona Cuomo e Zenia Simonella dell'Osservatorio Diversità, Inclusione e Smart working, SDA Bocconi School of Management, in collaborazione con Valore D, intervistando circa 140 consiglieri. Al di là dei molti risultati, emerge il mancato contributo delle donne nei CdA.


LO SCENARIO
«Le donne entrate nei board, perlopiù, non hanno sostenuto il tema della parità di genere, che quindi ha fatto fatica a entrare - dichiara Simona Cuomo - Varie le ragioni. Per alcune non è stato l'obiettivo centrale. Poi, magari, c'è la legittimazione: se sono vista come quota, devo dimostrare la mia capacità e il problema sociale va in secondo piano. Altre non avevano nelle loro corde o competenze chiave, portare avanti la questione. I movimenti che ci sono stati sono dovuti al mercato, ossia alla valutazione dell'impresa da parte degli investitori istituzionali, sulla base dei parametri ESG (Environment, Social, Governance)».


ORIZZONTE COMUNE
Ora si guarda avanti. Anche a quando la legge non servirà più perché la parità di genere sarà uno dei cardini culturali e sociali. «Questa legge è uno strumento di cui speriamo, prima o poi, di liberarci, ma tutti i dati, a livello italiano ed europeo, ci dimostrano che è valido per ridurre i tempi di una transizione culturale che altrimenti sarebbero molto più lunghi - dice Azzurra Rinaldi, direttrice School of Gender Economics, università Unitelma Sapienza - Occorrerebbero leggi simili per l'equa rappresentanza anche in posizioni di top management. Peraltro, quando aumenta il numero di donne pure in posizioni di leadership, aumenta il valore aziendale.
Lo conferma ogni nuova ricerca in tale ambito». «L'obiettivo - commenta Golfo - era raggiungere il 30% di donne nei CdA delle quotate, perciò la legge potrebbe già non servire più, ma manca il cambiamento culturale che, invece, è fondamentale. Sono ottimista. La questione è nell'agenda di governo».


PROSPETTIVE
Il problema non è solo italiano. Dallo studio europeo di European Women on Boards, appena il 6% delle società dell'indice di borsa STOXX Europe 600 ha a capo una donna. E, per il Global Gender Gap Report 2021, il political empowerment, a livello globale, è al 22%. Per giungere alla parità, serviranno 145,5 anni.

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