Italia, il Covid dà il colpo di grazia: tremano 400mila lavoratori al Sud

Italia, il Covid dà il colpo di grazia: tremano 400mila lavoratori al Sud
di Nando Santonastaso
Venerdì 11 Settembre 2020, 23:30 - Ultimo agg. 12 Settembre, 17:17
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I lavoratori metalmeccanici della Val d’Agri, in Basilicata, sono già passati dallo stato di agitazione allo sciopero vero e proprio, pochi giorni fa: non chiedono solo il rispetto di accordi economici ma, come scrivono Fim, Fiom e Uilm, «il futuro della questione petrolio nella regione, a partire dalla strumentale riduzione drastica delle attività di manutenzione e ambientali». In Sicilia sono invece le centinaia di dipendenti di Auchan e Coop di Palermo a temere per il posto di lavoro. Come al Nord i 174 dipendenti della Sicor di Rovereto, ai quali l’avvento di una nuova proprietà spagnola non sembra aver offerto tutte le garanzie economiche richieste e sollecitate anche attraverso scioperi ininterrotti di settimane. L’Italia del post Covid-19, sempre ammesso che il peggio sia passato, è molto simile a quella che c’era sul piano delle vertenze di lavoro prima dell’esplosione della pandemia, come peraltro dimostra in modo fin troppo eloquente la vicenda Whirlpool di Napoli. Ieri gli operai dello stabilimento sono partiti alle 10 in corteo partendo dalla fabbrica di via Argine e muovendo in direzione del centro cittadino. «Vogliamo che il tavolo ministeriale abbia una data e che il Governo porti l’unica soluzione credibile per noi e per il futuro del Paese: la Whirlpool rimane a Napoli e rispetta gli accordi», spiegano.

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La precarietà del sistema industriale e di parte della grande distribuzione, per la verità, era già nota da molto tempo ma ora che l’economia si sta faticosamente rimettendo in moto cresce il sospetto che ben poco sarà come prima. E, soprattutto, come dicono ormai quasi tutti gli osservatori socio-economici, che la ripresa sarà senza nuovi occupati, come già si intuisce dai dati diffusi ieri dall’Istat sull’andamento dell’occupazione nel secondo trimestre dell’anno (evidente il calo delle ore lavorate, ad esempio, anche se la situazione da luglio è sicuramente migliorata).

Sul piano strettamente numerico, le vertenze approdate al ministero dello Sviluppo economico erano segnalate in calo ad agosto. Dalle circa 160 si era scesi a circa 120 anche se il numero dei lavoratori coinvolti resta altissimo, intorno ai 170mila, di cui almeno il 40% nel Mezzogiorno. Il Mise puntualizza che per la maggior parte si tratta di tavoli aperti da diversi anni, 28 da ben 7 anni, perché sono situazioni che necessitano di un confronto permanente a causa della criticità del settore di riferimento. Ma il fatto che una settantina di tavoli sono aperti da più di 3 anni conferma che rimettere in piedi aziende in crisi non congiunturale resta a dir poco complicato e che le strade per le riconversioni industriali sono ancora quasi sempre tutte in salita. Lo dimostra il caso di Termini Imerese in Sicilia, dove finora tutti i tentativi di reindustrializzare il sito dell’ex Fiat hanno dato esiti parziali o insignificanti specie in ordine al recupero della vecchia manodopera. Per due marchi storici del made in Italy come Pernigotti e Corneliani, come ricorda il sottosegretario Todde, è stato possibile trovare accordi in grado almeno di salvare 1.800 posti di lavoro. Ma dietro l’angolo spuntano già altre vertenze delicate, da Bekaert all’ex Embraco, che si trascinano da tempo su binari di assoluta incertezza. Per la prima, dopo la chiusura due anni fa dello stabilimento di Figline Valdarno, si era fatta avanti una cordata italiana ma in realtà l’unica buona notizia è la proroga della cassa integrazione per i lavoratori. Anche per i 400 lavoratori dell’ex Embraco il futuro è un enorme punto interrogativo, con la loro ex azienda fallita e il buio quasi assoluto su nuovi investitori. 
 

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Non sarebbero, inoltre, da sottovalutare neanche i segnali in arrivo da gruppi industriali che operano nei settori più a rischio di non poter ripartire a pieno regime come l’automotive e il trasporto ferroviario e aeronautico. Emblematico il caso di Air Italy: Il faticoso salvataggio dei 1.453 lavoratori attraverso il ricorso m, tanto per cambiare, alla Cassa integrazione è servito solo a tamponare il pesante rischio occupazionale ma la trattativa vera e propria, sul reimpiego cioè della manodopera, è tutta da definire specie ora che per le compagnie aeree lo scenario post pandemia resta carico di dubbi. Le ipotesi sul futuro spaziano da un eventuale “settore della newco Alitalia” a una compagnia pubblico-privata con all’interno le Regioni. Per ora si naviga o meglio si vola a vista. 

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I dati di ieri dell’Istat, oltretutto, disegnano uno scenario particolarmente negativo per l’occupazione al Sud, già penalizzato dal taglio di decine di migliaia di contratti di lavoratori stagionali, dal turismo alla ristorazione, nonché dei contratti a termine scaduti nel primo semestre e non più rinnovati. Preoccupa anche l’aumento del tasso dei disoccupati under 35 e quello degli inattivi, un fenomeno che sembrava essersi arrestato e che, invece, la pandemia ha riportato su livelli di nuova, assoluta emergenza. Non è un caso che i sindacati confederali abbiano organizzato per martedì prossimo 18 settembre una giornata di mobilitazione con lo slogan “Ripartire dal lavoro” e al centro proprio vertenze incerte come quella della Whirlpool. Secondo le stime Svimez, del resto, più di 400mila lavoratori dei comparti industriale e commerciale del Mezzogiorno sono a forte rischio, e ad essi vanno aggiunti gli altri 200 mila circa che non sono più tornati al lavoro per effetto della crisi economica esplosa nel 2008. 

Il governo attraverso il Piano nazionale per la Ripresa e la Resilienza ha indicato nel digitale la svolta necessaria non solo per la Pubblica amministrazione ma anche per il nuovo sviluppo industriale, sulla scia del rafforzamento di Industria 4.0 deciso dal ministro Patuanelli, unico esempio di politica industriale del Paese.
Il guaio è che il Mezzogiorno parte da molto, forse troppo lontano per poter puntare a indici di competitività adeguati in tempi brevi. Lo dimostra il fatto che solo raramente i processi di rilancio industriale delle aziende in crisi hanno prodotto ricadute innovative e tecnologiche a prova di concorrenza globale. In molti casi le riconversioni hanno sacrificato posti di lavoro a obiettivi di breve e medio termine, nonostante il sostegno dei soldi pubblici.  

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