Debito pubblico, il sasso diventata montagna: ecco uno studio con le possibili soluzioni

Debito pubblico, il sasso diventata montagna: ecco uno studio con le possibili soluzioni
Debito pubblico, il sasso diventata montagna: ecco uno studio con le possibili soluzioni
di Rosario Dimito
Domenica 24 Maggio 2020, 12:53 - Ultimo agg. 13:49
38 Minuti di Lettura
Il debito pubblico italiano verso la montagna del 150% del pil. Un piano di rientro a livelli sostenibili comporta iniziative decise ma non traumatiche. E’ un tema sul tavolo del governo, di tanto in tanto fa capolino l’idea di una patrimoniale ritenuta da molti osservatori un errore perché innescherebbe una spirale recessiva.

La storia del debito pubblico italiano rassomiglia alle montagne russe, con i periodi bellici e post-bellici o con fasi di forte crescita o inflazione, con fasi di cancellazione parziale del debito o di accelerazione progressiva della spesa pubblica. Attualmente l’adesione dell’Italia alla Ue e il cambiamento di rotta della politica monetaria, con le Banche centrali afare incetta di titoli del debito pubblico, allargano le modalità di riduzione del debito. Le azioni di riduzioni del debito possono essere sui flussi o sullo stock.

Flussi: austerità (saldo primario), costo del debito, crescita reale, inflazione.
Stock: cessione di patrimonio pubblico, mutualizzazione, monetizzazione, misure di sostenibilità, ristrutturazione obbligatoria/ripudio, patrimoniale.
In uno studio molto articolato, ricco, puntuale, pregnante dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo guidato da Gregorio De Felice («Il debito pubblico italiano: storia di un sasso diventato macigno») si ripercorre la strana evoluzione del debito statale spiegando che per l’Italia «alcune di queste azioni sono utili e perseguibili tramite misure di politica economica o attraverso il coinvolgimento delle Istituzioni europee. Altre non sono tecnicamente percorribili, sono improbabili oppure risultano estremamente dannose o controproducenti».

Gli analisti ricorrono a simulazione, considerando le misure non traumatiche di riduzione del debito (quindi escludendo una patrimoniale o il default) per misurarne gli effetti. Ne deriva che le sole azioni sui flussi sarebbero sufficienti a portare il debito su un percorso discendente e di sostenibilità.
Allo scopo di esaminare le prospettive del debito pubblico italiano, è utile comprenderne a fondo le origini nelle loro radici storiche. Le diverse fasi della dinamica del debito e le motivazioni alla base dei movimenti al rialzo e al ribasso potranno essere infatti un riferimento anche oggi, quando si prospetta un livello del rapporto debito/pil ai massimi storici raggiunti subito dopo la prima guerra mondiale. Tuttavia, al di là degli episodi storici che hanno determinato un repentino aumento o una brusca riduzione del debito, la salita più significativa è avvenuta dal secondo dopoguerra, si legge nel report. La dinamica del debito pubblico italiano dopo la seconda guerra mondiale è idealmente scomponibile in diverse fasi. La prima fase va dal 1950 al 1968, periodo nel quale la crescita economica era elevata, inflazione e tassi d’interessi contenuti e politica fiscale equilibrata: in questo periodo il debito pubblico è passato dal 41% del 1961 al 33% del 1964 per poi risalire al 41% nel 1968. Il periodo dal 1968 agli inizi degli anni ‘80 è stato caratterizzato da una crescita ancora buona, ma da un’inflazione molto sostenuta a causa di svalutazioni e crisi petrolifere; itassi reali erano negativi, grazie ad una politica monetaria americana (e di riflesso europea) molto permissiva. Nonostante un notevole aumento delle spese pubbliche (10 punti di pil, di cui 4 punti per interessi) e una sostanziale stagnazione delle entrate, con la conseguenza di un deficit molto elevato (10% del PIL in media), il debito pubblico è aumentato solo moderatamente, passando dal 55% del 1973 al 60% del 1981. Questo grazie all’elevata inflazione, che era ampiamente superiore al costo del debito, determinando tassi reali negativi ed erodendo dunque i risparmi delle famiglie.
Dagli Anni ‘80, prevalentemente a causa dell’inversione della politica monetaria americana inaugurata da Reagan, i tassi reali cominciano a diventare fortemente positivi e gli effetti “benefici” dell’inflazione sul debito, in un contesto di tassi d’interesse elevati, spariscono.
Nonostante una buona crescita economica, oltre a una spesa pubblica in netto incremento, l’aumento del debito pubblico (che dal 60% del 1981 è salito al 124% del 1994) è stato il risultato anche della crescita significativa della spesa per interessi, proprio a causa di tassi che in media erano di 5 punti percentuali più alti dell’inflazione. In tale periodo, le Autorità politiche non hanno di fatto svolto alcuna azione volta ad evitare o almeno contenere l’esplosione del debito pubblico, complice un mercato che era comunque in grado di assorbire l’offerta di titoli pubblici. Più in dettaglio, l’aumento del debito pubblico nella sua dimensione più significativa è avvenuto a partire dagli Anni ’80. I periodi di maggior rilievo sono infatti tre: 
1. dal 1980 al 1994, quando il rapporto debito/PIL più che raddoppiò passando dal 56,1% al 117,9%;
2. dal 1994 al 2007, quando il rapporto debito/PIL scese dal 117,9% al 104%;
3. dal 2007 al 2013, quando il rapporto debito/PIL passò dal 104% al 133%, livello quest’ultimo che non è molto lontano da quello pre-Covid19.

Quali sono, in sintesi, le ragioni di tale andamento?

1. L’aumento del debito registrato all’inizio degli anni ’80 trae origine da due fenomeni. Il primo si trascina dalla prima metà degli Anni ’70 quando, in seguito alla riforma tributaria e alle politiche di spesa, si determinò un deficit che esploderà nel decennio successivo. Il secondo fenomeno riguarda la spesa per interessi che, complice la politica monetaria internazionale restrittiva degli Anni ’80, porterà a un aumento dei tassi reali e all’esplosione degli oneri per interessi nel corso del decennio. Si avvia cioè un circolo vizioso che impedisce un calo del debito anche in periodi di espansione economica, a causa dell’aumento della spesa per interessi.

2. A partire dalla seconda metà degli Anni ’90 si determina una combinazione estremamente favorevole per la riduzione del debito pubblico. Il contenimento della spesa, una buona crescita economica (seppur in rallentamento nella seconda metà degli Anni ’90), la discesa della spesa per interessi, in buona parte determinata dal calo dei tassi nominali e reali in vista della convergenza e dell’entrata nella Unione Economica e Monetaria, sono tutti fattori che hanno contribuito a portare il deficit pubblico dal 7,2% del 1995 all’1,8% del 1999 e, dopo una temporanea risalita, all’1,3% del 2007.

3. Dal 2007 il principale fattore che determina un aumento del debito è rappresentato dalla riduzione della crescita in occasione delle due crisi finanziarie. Prima quella dei mutui subprime del 2008, che porterà a una caduta del PIL in Italia del 5,2% nel 2009; poi quella del debito sovrano del 2011, che porterà ad un calo del PIL del 2,4% nel 2012 e dell’1,7% nel 2013. Non a caso, gli aumenti più significativi del debito si sono registrati nel 2009 (di quasi 10 punti, dal 106,2% al 116,6% del PIL) e nel 2012-2013 (di 13 punti circa, dal 119,7% nel 2011 al 132,5% del 2013).

Il ruolo della spesa per interessi dalla fine degli Anni ’70

Anche l’analisi della composizione della spesa, prosegue l’acuto report degli analisti di Intesa Sp, fa emergere il ruolo importante della spesa per interessi rispetto al totale. Dalla ricostruzione della Ragioneria Generale dello Stato sulla spesa pubblica emerge che la quota per interessi era sostanzialmente stabile intorno al 5% - e comunque inferiore al 10% - fino al 1976. Da tale data comincia a salire, fino a raggiungere un massimo del 24,5% nel 1993. 
Parallelamente si registra un aumento del tasso d’interesse nominale e reale che, anche a fronte di un ammontare del debito ancora abbastanza contenuto, spiega l’incremento così significativo della quota di spesa. Anche considerando i tassi di crescita, emerge la netta accelerazione in termini reali della componente di spesa per interessi rispetto alle altre componenti (36,9% in media annuale dal 1979 al 1984, rispetto al 26,4% delle altre componenti).
Alla spesa per interessi si aggiunge un più generale incremento dei trasferimenti pubblici alle Amministrazioni locali e a famiglie e imprese, come risultato di una fase crescente del ruolo dello Stato sia in Italia che in Europa. Si tratta probabilmente del risultato della crescita del sistema del welfare e della conseguente redistribuzione del reddito, ma anche di un crescente peso del clientelismo.

Il ruolo della crescita nel nuovo millennio

Con riferimento all’aumento del debito pubblico nel nuovo millennio, è evidente dalla dinamica della spesa e delle entrate che il principale motivo sta nel calo della crescita economica. Nel periodo dal 2007 al 2009, quando il debito pubblico passa dal 103,9% al 116,6% del PIL, si registra un significativo aumento del deficit (da 21,6 mld a 80,8 mld) a fronte di un aumento della spesa finanche inferiore a quello della prima metà degli anni 2000 (2,8% in media nei tre anni rispetto a una media del 3,8% nei 5 anni precedenti). Il principale motivo dell’aumento del disavanzo pubblico, e dunque del debito, sta nel rallentamento delle entrate, attribuibile prevalentemente al peggioramento della crescita economica. Le entrate totali si riducono infatti dell’1,2% dal 2007 al 2009, quando il pil cala del 2,3% in termini nominali. Parimenti nel periodo 2011-2013, quando il debito/PIL passa dal 119,7% al 132,5%, ma il deficit si riduce da 59,2 a 46 miliardi, la spesa totale cresce in media di appena lo 0,7%, mentre le entrate aumentano del 5,9%. Le misure adottate dal Governo Monti per far fronte alla crisi del debito sovrano determinano un miglioramento significativo dei conti pubblici ma anche una nuova fase recessiva con un calo del pil nominale del 2,2% dal 2011 al 2013.
Va tuttavia sottolineato che sia nel triennio 2007-2009 che nel 2011-2013 la differenza tra l’aumento del debito e del deficit (il cosiddetto stock-flow adjustment) è significativa. Tale voce riguarda le componenti finanziarie che non transitano per il deficit, per la loro natura e per le regole di contabilità europea. Essa include, ad esempio, le variazioni del conto di Tesoreria dovute a rimborsi di titoli o a maggiori disponibilità di liquidità in conseguenza di emissioni di debito. In tale voce confluiscono i prestiti agli altri Paesi europei per effetto di programmi di aiuto (come per la Grecia) e il contributo di capitale al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Complessivamente, l’aggiustamento consistenze-flussi ha pesato per l’8,4% dell’aumento del rapporto debito/PIL dal 2008 al 2014, di cui 3,4% attribuibile a prestiti e al contributo al capitale del MES (0,5%).
Dall’analisi dell’evoluzione del debito e della composizione della spesa emerge dunque che, sebbene il crescente ruolo dello Stato in economia abbia avuto un ruolo importante, due variabili endogene, spesa per interessi e crescita, hanno avuto un ruolo non marginale nell’esplosione del debito pubblico in Italia. Due variabili “endogene” non perfettamente controllabili tramite azioni di politica economica. La spesa per interessi è legata al costo del debito, a sua volta determinato dal costo di finanziamento dello Stato italiano nel mercato dei capitali. Maggiore è la possibilità di controllare tale costo e auspicabilmente contenerlo (sostenibilità dei conti pubblici, credibilità, ecc.), minore sarà il costo del debito e dunque la spesa per interessi. Tematica particolarmente rilevante nel caso in cui il debito sia molto alto come quello italiano, per il rischio di “snowball effect” che si determina. Parimenti rilevante è il ruolo della crescita, non perfettamente controllabile dalle Autorità di politica economica. La congiuntura internazionale e le decisioni di spesa e investimento di consumatori e imprenditori non sono sotto il controllo dello Stato. Tuttavia, l’azione pubblica può essere diretta alla creazione delle condizioni migliori per l’attività d’impresa, contribuendo in tal modo ad aumentare il livello di crescita economica. 

La riduzione del debito pubblico nella storia italiana

La prima significativa riduzione del debito pubblico italiano si registrò già dalla fine dell’800, dopo un’iniziale salita seguita all’Unità d’Italia. Principalmente a causa del fabbisogno crescente, ma anche per effetto del calo del PIL nominale, in 8 anni dal 1862 al 1870, il debito pubblico passò dal 45% al 96% del PIL; nel 1881 superò il 100%, raggiungendo il 120% nel 1887. La successiva fase di riduzione del rapporto debito/pil dal 1898 al 1912, quando il rapporto scese dal 120% al 79%, è imputabile alla dinamica del PIL nominale, in aumento in misura nettamente superiore rispetto all’incremento del fabbisogno. Il ruolo della crescita reale e l’aggancio alla “prima globalizzazione” furono il fattore principale della riduzione del debito pubblico. Il primo grande rientro del debito pubblico da livelli ben superiori al 100% fu dunque determinato dalla crescita, in un contesto economico internazionale di elevata fiducia nell’Italia. A tal punto che nel 1906 quasi tutti i sottoscrittori della “Rendita italiana” (l’equivalente degli attuali titoli di Stato), accettarono su base volontaria una riduzione del tasso d’interesse dal 5% al 3,75% e lo spread rispetto ai tassi d’interesse in Francia e in Inghilterra (i riferimenti di allora in ambito internazionale) si ridusse significativamente.
La seconda forte riduzione del debito pubblico si verificò dopo la Prima Guerra Mondiale. Dal 1912 al 1920 il debito pubblico passò dal 79% al 125% del PIL, per effetto dell’aumento del fabbisogno soprattutto nel periodo bellico. La riduzione successiva fino al 61%, raggiunto nel 1927, fu determinata dall’aumento dell’inflazione ma soprattutto, nel 1926 (dal 96% al 63%), dal condono del debito di guerra (per 4/5 quello nei confronti degli Stati Uniti). Dunque, una cancellazione parziale unilaterale che ridusse il debito più del 30% del pil. 
La terza riduzione significativa del debito avvenne dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’aumento del debito pubblico dal 1927 al 1943 (dal 61% al 118%) fu dapprima determinato dalla crisi economica e dalla deflazione, che provocarono un forte calo del pil nominale, e successivamente dall’esplosione del fabbisogno per le esigenze belliche. In questo caso il calo determinatosi fino al 24% del pil nel 1947 fu causato dall’esplosione dei prezzi con un’inflazione arrivata al 344,4% nel 1944 e al 1.574% (un aumento dei prezzi di 15 volte) dal 1943 al 1947.
Un ultimo periodo di significativa, anche se non fortissima, riduzione del debito pubblico si è verificato dal 1995 al 2004, quando si è passati dal 119,4% al 105,1% del pil. L’analisi dei dati evidenzia che, complice la necessità di raggiungere i requisiti per l’ingresso nell’Unione Monetaria nel 1999, ci fu un’importante riduzione del deficit e del fabbisogno, a fronte di una crescita reale e nominale buona anche se non esplosiva, soprattutto nella seconda metà degli Anni ’90. Ad alimentare il contenimento della spesa ci fu anche la riduzione del costo del debito per effetto della convergenza dei tassi d’interessi. Dunque, un mix di austerity, crescita e contenimento del costo del debito contribuì alla riduzione del debito pubblico di circa 15 punti percentuali. In sintesi, l’esperienza dalla nascita dello Stato unitario a oggi evidenzia, per grandi linee, 4 diversi modi di abbattere il debito pubblico: la crescita, la cancellazione, l’inflazione e le misure di austerity. Ognuno di essi va ovviamente letto alla luce delle condizioni storiche, economiche e sociali che hanno caratterizzato i diversi periodi e che non necessariamente sarebbero replicabili oggi. Tuttavia, costituiscono un utile riferimento per affrontare la tematica della riduzione del debito pubblico nell’attuale contesto storico.

Le proposte per la riduzione del debito pubblico italiano

Qualunque sia la strada da percorrere, la sostenibilità del debito pubblico, oggi ancor più che in tempi passati, è dunque tornata ad essere un tema cruciale per lo scenario. La ricostruzione dell’ufficio studi della banca milanese così prosegue. Diverse sono le proposte arrivate sia dal mondo accademico che dalla comunità finanziaria per restituire sostenibilità alla posizione fiscale in diversi modi, agendo su una o più delle variabili che ne determinano la dinamica8.
La strada della riduzione del debito attraverso avanzi primari costanti nel tempo, ossia aumentando le tasse e/o tagliando le spese è stata la scelta dell’Unione Europea e rappresenta di fatto uno dei punti-cardine del fiscal compact. Tuttavia, questa ricetta non appare percorribile nel breve periodo in quanto da una parte la necessità di sostenere il sistema economico e, dall’altra, la recessione pesante rendono complesso pensare sia ad un aumento delle imposte che ad una riduzione delle spese. Ampliando l’orizzonte temporale e posizionandosi in un quadro di emergenza terminata ed uscita dalla recessione, secondo quanto sostengono Giavazzi, Alesina e Favero nel libro “Austerità” si può riflettere su un approccio basato sulla gestione del saldo primario. I tre economisti, attraverso un’ampia analisi statistica, giungono alla conclusione che l’austerità basata sulla riduzione della spesa pubblica è meno costosa in termini di crescita ed è più efficace nella stabilizzazione del rapporto debito/PIL rispetto all’austerità basata sull’aumento delle entrate del settore pubblico. I piani di riduzione del deficit fondati sui tagli di spesa hanno in media un piccolo effetto di contrazione sulla crescita e risultano efficaci nel contenere la dinamica del debito. L’effetto dell’aumento della tassazione è invece negativo, ampio e significativo sulla crescita, e non è accompagnato dalla stabilizzazione del rapporto debito/pil. La ratio sottostante questa evidenza empirica risiede nella considerazione che tagli di spesa aumentano la fiducia delle imprese e dei consumatori perché danno un segnale di riduzione della dimensione del settore pubblico e dunque della minore necessità di rialzi futuri delle imposte, mentre un aumento delle entrate, che non agisca contemporaneamente sulla crescita della spesa, non basta a stabilizzare il debito in maniera duratura e aumenta l’incertezza.
Un’altra strada verso la sostenibilità è la riduzione dello stock di debito in senso stretto, attraverso la vendita delle attività dello Stato e le privatizzazioni. Anche questa strada, adottata nei decenni precedenti, non sembra essere perseguibile nelle condizioni attuali. Già un anno fa Maria Cannata, ex responsabile della gestione del debito pubblico, in un’intervista al Sole 24 Ore9 affermava che non si può ridurre significativamente il debito attraverso la vendita di beni pubblici. Secondo la Cannata, le grandi privatizzazioni sono state già fatte e anche privatizzando, ad esempio, Enel o Eni, si perderebbe il controllo di due settori strategici per un ricavato che, se confrontato ai grandi numeri del debito, risulta estremamente ridotto. Per contro, continua Maria Cannata, il rapporto debito/PIL si riduce gradualmente rispettando anno per anno i target di bilancio, con una politica fiscale che preveda anche investimenti pubblici per la crescita.
Una terza strada è quella della riduzione del tasso d’interesse medio sullo stock di debito pubblico, che tuttavia rappresenta una variabile molto complessa da gestire in quanto condizionata da una serie di fattori interconnessi tra di loro, tra cui la sostenibilità del debito pubblico stesso. In questo filone si inserisce la proposta di Tabellini e Giavazzi, arrivata anch’essa durante l’emergenza Covid-19 dal sito de lavoce.info10. I due economisti pensano all’emissione di bond a scadenza di 50 o 100 anni o addirittura di obbligazioni perpetue conosciute anche come “Consols” o titoli di debito pubblico consolidato, cioè titoli a cedola fissa senza scadenza emessi dagli Stati membri dell’Unione Monetaria Europea e garantiti dalla loro capacità fiscale collettiva. Ogni Paese emetterebbe le proprie obbligazioni, che però sarebbero identiche tra loro in ogni altro aspetto. La garanzia comune derivante dalla capacità fiscale congiunta degli Stati che partecipano all’emissione porterebbe ad un rating comune elevato e ad un costo, il tasso d’interesse, unico e mantenuto molto basso anche dal supporto della Bce, con il rischio di insolvenza limitato all’improbabile ipotesi che i Paesi decidessero di non rispettare l’accordo iniziale. Un tasso di interesse dello 0,5 per cento, ad esempio, per finanziare un debito pari al 10% del pil costerebbe solo lo 0,05 per cento del PIL ogni anno, una somma trascurabile; inoltre la scadenza di questo debito addizionale sarebbe molto lunga, permettendo ai Paesi già altamente indebitati di non veder crescere il rischio di una crisi per il rifinanziamento del proprio debito.
Una quarta strada proposta per ridurre nel tempo il rapporto debito/pil, e di conseguenza accrescerne la sostenibilità, è quella di aumentare la crescita nominale. Al di là dell’inflazione, soprattutto in un periodo come quello attuale di prezzi compressi, l’azione si deve concentrare sulla crescita reale. Una opzione è stimolare la crescita congiunturale, attraverso manovre fiscali espansive che tuttavia andrebbero a peggiorare l’avanzo primario, con un impatto netto, soprattutto in termini dinamici, affatto scontato. Un’altra strada, decisamente più battuta sia in termini di raccomandazioni da parte delle istituzioni sovranazionali sia nelle proposte anche attuali per ridurre il debito, è quella di azioni di lungo periodo e riforme strutturali che vadano ad agire sulla crescita potenziale (di lungo periodo) di uno Stato. In questa linea si inserisce anche un intervento di Antonio Padoa Schioppa che propone, oltre al blocco della spesa corrente (che dovrebbe risultare non eccessivamente traumatico in presenza di un’inflazione molto bassa) e al recupero progressivo ma strutturale di una quota dell’evasione fiscale, un congruo volume di investimenti per lo sviluppo, l’ambiente, le energie rinnovabili, la salute e la ricerca. Questi investimenti dovrebbero essere attuati in misura prevalente con i fondi europei del Recovery Fund e gestiti dalla Commissione nell’ambito del bilancio europeo, accresciuto anche con nuove risorse proprie. Padoa Schioppa fa riferimento in particolare al moltiplicatore degli investimenti, sottolineando come un certo volume di investimenti determina un aumento più che proporzionale del pil. Conseguentemente lo scarto tra l’aumento del pil (più l’inflazione, oggi peraltro quasi inesistente) e il debito nominale sarebbe sufficiente a determinare una lenta ma strutturale discesa del rapporto tra debito e pil.
Su questa linea è anche Carlo Cottarelli, intervenuto più volte in queste settimane sostenendo che l’unica strada attualmente percorribile per far rientrare il debito pubblico è quella di fare ripartire la crescita economica del Paese ad un tasso reale del 2% annuo e che non è ipotizzabile realizzare una riduzione strutturale del debito solo con un taglio della spesa pubblica. I miglioramenti strutturali, secondo Cottarelli, devono venire da un piano di riforme che permetta agli imprenditori di fare nuovi investimenti, semplificando regolamenti e procedure per snellire la macchina amministrativa e accorciando i tempi della giustizia. Sull’importanza del differenziale tra onere del debito e crescita è tornata anche la stessa Banca d’Italia attraverso le parole di Eugenio Gaiotti, capo del dipartimento Economia e Statistica di via Nazionale, durante l’audizione sul Def a fine aprile. La sostenibilità del debito pubblico, ritiene Bankitalia, non è alterata a patto però che, una volta superato lo choc del coronavirus, venga assicurata una “strategia credibile per i conti pubblici e per la crescita dell’economia, che garantisca nel medio termine un’evoluzione favorevole del differenziale tra la dinamica del prodotto e l’onere medio del debito”, da attuarsi attraverso riforme strutturali che sostengano il PIL potenziale.
La sostenibilità del debito pubblico può essere perseguita anche per un’altra strada, oltre – o congiuntamente – alla sua riduzione: quella di una redistribuzione dei creditori dello Stato verso soggetti meno influenzabili dalle dinamiche di mercato: gli investitori privati domestici. La Bce, che attraverso i due programmi di acquisto titoli detiene già circa il 20% del debito italiano rappresenta certamente uno scudo contro le oscillazioni finanziare ed eventuali vendite per ondate determinate dalla sfiducia; tuttavia non può essere considerata una soluzione di lungo periodo. Una strada citata da molti per una maggiore sostenibilità del debito in senso più ampio (ossia al di là dell’ammontare) è la distribuzione dei creditori: maggiore è la quota di debito in mano ad investitori privati domestici, tipicamente stabili nelle proprie scelte di portafoglio, minore dovrebbe essere la vulnerabilità del debito alle oscillazioni di mercato. Lo stesso Tesoro italiano punta con la strategia di emissioni sul 2020 ad aumentare la quota di risparmio privato domestico investita direttamente in BTP, attualmente al 4% del totale del debito (anche se una quota aggiuntiva intorno al 2% è collocata presso altre istituzioni finanziarie che detengono complessivamente il 22% del debito). Su tema dei creditori dello Stato è tornato anche Paolo Savona, Presidente della Consob, lo scorso 11 maggio in occasione dell’apertura del Convegno Milano Capitali 2020, affermando che “non c’è sulla base della capienza del risparmio italiano la possibilità che l’Italia possa dichiarare default” e sottolineando che la strada è quella di veicolare il risparmio italiano verso il debito pubblico.

Uno schema sulle modalità di riduzione del debito pubblico

La riduzione del debito pubblico oggi potrebbe, da un punto di vista prettamente teorico, avvenire secondo diverse strade, riassumibili nel seguente schema, ancorché non esaustivo:

1) Azione sui flussi:

a. Austerità: aumento del saldo primario attraverso la riduzione della spesa pubblica corrente o in conto capitale e/o l’incremento della pressione fiscale;

b. Costo del debito: contenimento della spesa per interessi attraverso la riduzione del costo medio del debito. Rafforzamento della “capacità e volontà” di onorare il servizio del debito tramite credibilità e reputazione interna e internazionale;

c. Crescita reale: stimolo della crescita tramite misure strutturali dirette ad aumentare l’attrattività di capitali esteri e a favorire l’attività imprenditoriale interna (riduzione burocrazia, snellimento attività giudiziale, digitalizzazione ecc.); composizione del mix fiscale più favorevole alla crescita senza penalizzare il deficit;

d. Inflazione: accelerazione dei prezzi che determina un aumento del pil nominale senza necessariamente una crescita del PIL reale; un aumento dell’inflazione non è direttamente controllabile se non sporadicamente (aumento IVA) o attraverso la decisione politica di un’uscita dall’Unione Monetaria, che certamente determinerebbe una forte accelerazione dei prezzi.

2) Azione sullo stock:

a. Patrimonio pubblico: vendita del patrimonio mobiliare e/o immobiliare della Pubblica Amministrazione, utilizzando i relativi proventi per la riduzione del debito;

b. Mutualizzazione/Trasferimenti: condivisione totale o parziale del debito pubblico, con riferimento allo stock esistente o a nuovo debito; nell’Eurozona attraverso forme di condivisione fiscale e trasferimenti, giustificati dall’esistenza di un’Unione Monetaria e di Istituzioni comuni;

c. Monetizzazione: finanziamento del debito da parte della Banca centrale attraverso la sottoscrizione diretta di titoli di Stato o la loro cancellazione/detenzione perpetua;
d. Misure di sostenibilità: incentivi ai detentori o proposte di modifica volontaria delle condizioni del debito, con riferimento alle cedole, al valore nominale, alle scadenze, alla seniority o alla tipologia di obbligazioni;

e. Ristrutturazione obbligatoria/Ripudio: una ristrutturazione obbligatoria equivale a un default del debito pubblico, così come il ripudio dello stesso, che consiste nel rifiuto da parte dello Stato di ripagarlo totalmente o in parte;

f. Patrimoniale: tassazione del patrimonio dei privati diretta a recuperare le risorse destinabili alla riduzione del debito; generalmente considerata una misura una tantum, di importo tale da ridurre in modo sostanziale l’entità del debito.

Un approccio multimodale applicabile al caso italiano

L’esperienza storica italiana ha evidenziato che la secondo modalità differenti, come un aumento significativo della crescita o dell’inflazione, una riduzione del fabbisogno o una cancellazione parziale del debito. Non tutte queste modalità sono oggi percorribili o perché non ci sono le condizioni perché si verifichino, oppure perché le variabili di riferimento non sono del tutto controllabili. Tuttavia, tra le condizioni per una diminuzione del debito pubblico menzionate nel precedente paragrafo, sono oggi possibili diverse soluzioni che, considerate nel loro insieme, potrebbero risultare efficaci. Preso atto che non esiste una soluzione semplice e unica per abbattere un livello molto elevato del debito, che nel caso italiano appare destinato a superare il 150% del pil già nel 2020, la combinazione di misure adatte al contesto storico e alle condizioni economiche può consentire una riduzione graduale e non traumatica.
Più nello specifico, si legge nell’analisi di Intesa Sp, nelle condizioni economiche attuali, misure di austerità dirette al contenimento del fabbisogno sono da escludere. Ogni ipotesi di aumento della tassazione o di riduzione della spesa, che non siano diretti meramente all’efficientamento o al contenimento degli sprechi, risulta oggi improponibile oltre che dannosa. In una fase come quella attuale, in cui l’azione di politica fiscale deve essere diretta a sostenere il sistema sanitario e l’economia che sta affrontando una recessione senza precedenti, ipotizzare misure di contenimento del deficit è alquanto anacronistico. Tuttavia, una volta superata la crisi, la sostenibilità del debito non può prescindere dal ritorno a un saldo primario positivo, soprattutto in un contesto di crescita contenuta come quella che caratterizza la nostra economia.
Sul fronte del costo del debito, invece, l’elevato livello degli impegni finanziari dello Stato italiano impone la necessità di tenere i tassi di finanziamento a un livello molto contenuto per evitare lo “snowball effect”, cioè quel meccanismo di progressivo aumento del debito dovuto a tassi d’interesse elevati, per una data crescita nominale del pil. Il contenimento del costo del debito dipende primariamente dalla “capacità e volontà” di pagare da parte del debitore e dunque dall’impegno dello Stato italiano di far fronte ai pagamenti anche attraverso l’annuncio di una traiettoria di rientro da deficit particolarmente elevati e insostenibili. Nel caso specifico dell’area euro e della situazione attuale, il contenimento del costo del debito è garantito dall’azione della Bce che, tramite i programmi di acquisto di titoli di Stato (Public Sector Purchase Programme, PSPP e Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP), calmiera i tassi dei titoli italiani, al fine di garantire una corretta trasmissione dello stimolo monetario. Tale effetto favorevole, non necessariamente permanente, non dovrebbe esimere dal preservare credibilità e reputazione nell’onorare gli impegni finanziari.
Per ciò che riguarda la crescita economica, si tratta senz’altro della modalità più “morbida” di riduzione del debito pubblico in rapporto al PIL poiché si agisce sul denominatore. Purtroppo, la crescita economica non è pienamente controllabile attraverso azioni di politica economica e, nel caso di un’azione di stimolo fiscale attraverso un ampliamento del deficit, non è garantita una riduzione del debito poiché l’effetto moltiplicativo è generalmente contenuto (tra 0,4 e 0,5 l’impatto sulla crescita di spesa pubblica finanziata in deficit in Italia). Fanno eccezione gli investimenti pubblici che determinano un incremento strutturale della produttività e che dunque, col tempo, producono un effetto moltiplicativo favorevole sulla crescita economica. Nel caso in cui le risorse fossero totalmente o parzialmente europee, come possibile nel caso specifico dell’Italia, l’effetto favorevole sarebbe ampliato dall’assenza parziale o totale di un onere sui conti pubblici del nostro Paese.
L’inflazione è un altro elemento favorevole alla riduzione del debito pubblico, ma si tratta di una variabile poco controllabile. Un aumento dell’inflazione determina un aumento del PIL nominale rispetto al quale viene misurato il debito pubblico. In generale un’inflazione alta, in presenza di “illusione monetaria” e senza indicizzazione, favorisce i debitori poiché il valore reale del debito si riduce. Dopo la Seconda Guerra Mondiale fu proprio l’iper-inflazione a determinare una forte discesa del rapporto debito/pil. Anche negli Anni ’70 l’inflazione da petrolio ha contribuito a contenere il debito in una prima fase, così come le svalutazioni che si traducevano in aumenti dei prezzi dei beni importati. Dopo l’abolizione della cd. “scala mobile” e successivamente all’ingresso dell’Italia nella moneta unica nel 1999 (ma già prima per le necessità di convergenza), un aumento significativo dell’inflazione è stato di fatto precluso e solo saltuariamente determinato dalla dinamica del prezzo del petrolio. Un aumento dell’inflazione tale da contribuire a determinare una significativa riduzione del debito pubblico sarebbe oggi possibile solo in presenza di un’uscita dell’Italia dall’euro, per la conseguente svalutazione. Tale scenario sarebbe catastrofico per la stabilità e per il futuro del nostro Paese.
Sul fronte dei metodi di riduzione del debito pubblico dal lato dello stock, la disponibilità di un patrimonio pubblico destinabile alla vendita, seppur parziale, rappresenta in Italia una fonte di risorse stimabile in 100 miliardi. Tuttavia, non è semplice portare sul mercato immobiliare strutture pubbliche generalmente utilizzate per scopi, ad esempio, amministrativi. Più agevole l’utilizzo degli immobili quali collaterale per operazioni di finanziamento a tassi ridotti. Dallo scoppio della pandemia si è parlato molto di sostegno europeo tramite mutualizzazione e trasferimenti. Seppur in linea teorica si tratti di un’ipotesi ragionevole per un’Unione Monetaria che mira a diventare una compiuta Unione Fiscale, l’attuabilità da un punto di vista politico appare complessa, se non entro criteri e limiti prefissati. Pensare ad una riduzione diretta dello stock di debito attualmente esistente in Italia è irrealistico. Ipotizzare l’emissione di nuovo debito comune con l’obiettivo di sostenere i Paesi in difficoltà è invece un’ipotesi realistica e praticabile, come suggerito dall’accordo preliminare sul Recovery Fund, le cui fonti di finanziamento sono in corso di definizione ma che saranno probabilmente di origine comune. L’idea che in prospettiva ci possa essere in ogni caso una quota di debito nazionale e una quota di debito comune appare giustificata anche dalla necessità di operare veri e propri trasferimenti da Paesi con maggiori risorse e Paesi con minori capacità di spesa. Non si tratterebbe di una cancellazione di debito italiano ma della possibilità di sostituire parte delle risorse nazionali con risorse europee.
Una forma di “mutualizzazione di fatto” è quella realizzata dalla BCE attraverso l’acquisto di titoli di Stato. L’ammontare complessivo acquistabile nell’ambito dei programmi BCE supera i mille miliardi di euro e ha indotto alcuni commentatori ed economisti a considerare l’idea di una monetizzazione del debito o di “helicopter money”. Nella sua definizione più pura, la monetizzazione del debito avviene quando la Banca centrale finanzia il debito dello Stato attraverso la creazione di base monetaria. Ciò che di fatto accadeva in passato anche in Italia fino al cosiddetto “divorzio” tra la Banca d’Italia e il Tesoro (nel 1981), che rappresentò un passo decisivo verso la lotta all’inflazione. Oggi le condizioni sono decisamente diverse e il rischio inflazionistico è fortemente diminuito. Inoltre, anche la definizione di monetizzazione assume un carattere spurio, se si considera ad esempio il caso della Banca del Giappone, che possiede l’equivalente di circa 4 mila miliardi di euro di titoli di Stato giapponesi. Pensare che le Banche centrali possano riversare sul mercato i titoli che hanno precedentemente acquistato è irrealistico, a meno di non ritenere che ci sarà un’accelerazione esplosiva dei prezzi che possa indurre le autorità monetarie a drenare ingente liquidità dal mercato. E’ invece ragionevole ritenere che le Banche centrali deterranno un ammontare significativo di titoli di Stato per un lungo periodo di tempo, potenzialmente indefinito, realizzando una sorta di “monetizzazione spuria”, visto che il pagamento degli interessi sul debito è, di fatto, una partita di giro.
Un’altra ipotesi che non è di vera e propria riduzione del debito pubblico ma una sorta di mitigazione dei rischi che un livello elevato di tale debito comporta, è quello delle misure di sostenibilità. Le forme possono essere varie e si basano sull’opportunità di modificare il profilo del debito per renderlo più sostenibile. Un esempio è quello di indirizzare, attraverso incentivi, una quota rilevante di debito pubblico verso le famiglie italiane, che oggi detengono solo il 4% del totale. Nell’ipotesi in cui la quota raggiungesse, ad esempio, il 20%, l’aumento di debito in mano a investitori privati sarebbe pari a circa 330mld di euro (ai dati di marzo 2020). Più in generale, il tema è quello di sfruttare l’ammontare rilevante di patrimonio mobiliare delle famiglie italiane (pari a circa 4.400 mld) per rendere più stabile il debito pubblico italiano rispetto alla volatilità dei mercati e al variare dell’appetito per il rischio da parte degli investitori internazionali. Sfruttare cioè quell’”home bias” che caratterizza gli investimenti finanziari nei singoli Paesi.
Unicamente quale ipotesi di scuola vale la pena considerare le ultime due ipotesi di riduzione del debito pubblico. La ristrutturazione obbligatoria o ripudio del debito coincide con il default del Paese. Si tratta di un’ipotesi catastrofica e che porterebbe molto probabilmente l’Italia fuori dall’euro. La conseguente instabilità finanziaria, economica, politica e sociale porterebbe il Paese in una condizione di povertà dilagante.
Infine, l’ipotesi di una tassa patrimoniale è più volte stata paventata negli anni anche in virtù della ricchezza privata mediamente elevata delle famiglie italiane. L’idea che tale soluzione possa ritrovare auge come conseguenza dell’ulteriore aumento del debito pubblico che ci aspetta, ci induce ad approfondire il tema nel prossimo paragrafo, anche attraverso una disanima storica di provvedimenti simili. Anticipiamo che un’imposta patrimoniale in questa fase e in futuro, nella misura che sarebbe necessaria a determinare un significativo calo del debito pubblico, è un’idea sbagliata e pericolosa poiché porterebbe il Paese in una nuova fase recessiva con gravi conseguenze sociali. Preso atto delle misure utili alla riduzione del debito pubblico nell’attuale contesto storico e della difficoltà o improbabilità della loro applicazione, è possibile in ogni caso misurarne l’impatto sulla dinamica del debito nel medio termine. Si tratta di un esercizio puramente teorico ma utile per capire l’ordine di grandezza della riduzione ottenibile in assenza di misure traumatiche per l’economia e la società italiana. Le stime evidenziano che a seguito dell’applicazione delle misure sopra menzionate secondo criteri predefiniti e del tutto ipotetici, il debito pubblico italiano, nella componente nazionale (cioè escludendo le eventuali quote di debito comune), può convergere verso livelli sostenibili.

L’imposta patrimoniale in Italia

L’ipotesi dell’introduzione di una patrimoniale ha una lunga storia e viene spesso presentata come una possibile soluzione per ridurre il debito pubblico soprattutto in periodi di emergenza, alla luce dell’elevata ricchezza delle famiglie italiane. Ma che cosa è una imposta patrimoniale?
Si possono definire imposte patrimoniali quei tributi diretti che gravano sulla ricchezza (non sul reddito) posseduta dalle persone in un determinato momento. Possono essere reali se colpiscono una sola componente del patrimonio del contribuente o soggettive se ne colpiscono la totalità. Il concetto di “patrimonio” non è univocamente definito dal diritto tributario e questo genera dibattito circa la catalogazione delle imposte “patrimoniali”.

Una breve storia delle imposte patrimoniali in Italia

Dopo la prima guerra mondiale, con la crescita del debito pubblico e le maggiori necessità di finanziamento, si ventilò l’ipotesi di un’imposta patrimoniale, ordinaria oppure una tantum. Nella storia italiana però le patrimoniali hanno di norma avuto carattere straordinario per far fronte a particolari esigenze di finanza pubblica, oppure sono state delineate in maniera tale da colpire solo alcune componenti del patrimonio (per esempio gli immobili).

1919 - Prima proposta, da parte del Ministro delle Finanze Meda, di un disegno di legge per l’introduzione di un’imposta ordinaria sul patrimonio ad aliquota unica, non concretizzatasi.

1920 - Lo stato delle finanze pubbliche rende comunque necessaria la prima imposta straordinaria sul patrimonio sia delle persone fisiche che degli enti collettivi da parte del Governo Nitti.

1936-38 - Imposizione di tre imposte straordinarie per il finanziamento delle guerre d’Africa:

1) sulla proprietà immobiliare;

2) sul capitale delle società per azioni;

3) sul capitale delle aziende industriali.

1940 - Imposta patrimoniale ordinaria Thaon (dal nome del Ministro) con aliquota proporzionale per finanziare le esigenze belliche (imposta ordinaria ma in periodo di guerra).

1947 - L’imposta ordinaria viene sostituita da tre tributi straordinari: a) l’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio; b) l’imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio delle società e degli enti; c) l’imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio (quest’ultima è un temporaneo inasprimento per il solo 1947 della prima imposta). I pagamenti erano rateizzabili, quindi hanno garantito entrate fino al 1960.

1972 - Con il progetto di riforma tributaria della Commissione Cosciani del 1962 ci furono proposte per l’introduzione di una patrimoniale, ridimensionatesi poi con la Commissione Visentini e nei decreti attuativi (dieci anni più tardi) in un tributo sull’incremento di valore degli immobili (Invim).

1992 - Governo Amato:
1) prelievo forzoso del 6 per mille su tutti i conti correnti bancari;
2) introduzione dell’ISI (Imposta straordinaria sugli immobili), poi trasformata in imposta ordinaria nel 1993 con l’ICI (Imposta Comunale sugli immobili) in sostituzione dell’INVIM, pari al 3 per mille dei valori catastali opportunamente rivalutati;
3) imposta straordinaria sul patrimonio netto dell’imprese dal 1992 al 1995;
4) imposta su alcuni beni di lusso.

2011 - Dopo la riduzione e poi la definitiva soppressione (nel 2007-08) dell’ICI, viene introdotta l’IMU (Imposta Municipale Unica) prima dal Governo Berlusconi nell’ambito del federalismo fiscale sugli immobili diversi dall’abitazione principale (con partenza prevista nel 2014) e poi estesa e anticipata (con partenza al 2012) dal Governo Monti. Scattata nel 2012 anche l’IVIE (Imposta sul valore degli immobili detenuti all’estero dalle persone fisiche residenti in Italia), in seguito (dal 2016) applicata solo sulle seconde case. Possono essere considerate imposte patrimoniali anche quelle reali come per esempio: a) il “bollo auto” (nato negli anni 50 come tassa di circolazione); b) l’imposta di bollo sui conti correnti e sul deposito titoli; c) l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero (IVAFE) dal 2012.
Una nota a parte si può riservare alle imposte sulle successioni, che per alcune caratteristiche potrebbero essere considerate come “patrimoniali”, introdotte in Italia per la prima volta nel 1862. Dopo una serie di modifiche e riforme (1902, 1914, 1923, 1942, 1974, 1991) l’imposta fu brevemente abrogata nel 2001 per poi essere reintrodotta nel 2006.
La Francia, per esempio, sin dal 1945 ha avuto con diverse modalità un’imposta patrimoniale soggettiva; l’ultima l’Impôt de solidarité sur la fortune (IFS) è stata abrogata nel 2017 e sostituita6 da un’imposta sul solo patrimonio immobiliare, l’Impôt sur la fortune immobilière (IFI). Nei casi francesi però l’imposta non colpiva tutti i contribuenti ma solo quelli particolarmente benestanti (per esempio all’IFI sono soggetti coloro i quali detengono un patrimonio immobiliare netto superiore a 1,3 milioni).
Non è però limitata alle imposte patrimoniali l’esperienza di tassazione straordinaria per far fronte alle esigenze di bilancio del Governo. Un altro esempio è il “Contributo straordinario per l’Europa” del 1996, altresì noto come “Eurotassa”, in quanto necessario per garantire il rispetto dei parametri di Maastricht e permettere l’adesione all’area dell’euro. Tale contributo non colpiva il patrimonio ma agiva come imposta addizionale sul reddito generando oltre 4.000 miliardi di lire di introiti per il Tesoro. L’Eurotassa, varata a dicembre del 1996, faceva parte dell’ultima di una serie di manovre correttive che permisero il ridimensionamento del rapporto deficit/PIL dal 7% del 1996 al 2,7% del 1997.
Infine, una soluzione più volte utilizzata per far rientrare patrimoni dall’estero e regolarizzare le posizioni fiscali dei contribuenti è quella della Voluntary Disclosure (2015 e nel 2017). Le due precedenti edizioni hanno permesso la regolarizzazione di una base imponibile di circa 90 miliardi e i fondi potenzialmente aggredibili potrebbero totalizzare 300 miliardi (si stima ci siano circa 150 miliardi di euro in contanti nelle cassette di sicurezza e altrettanti parcheggiati nei paradisi fiscali). Per una eventuale nuova versione è stata inoltre suggerita ’ipotesi di convogliare i fondi riemersi verso la sottoscrizione di titoli di stato; nel complesso nperò, nonostante il vasto bacino potenziale, l’effettivo successo di un tale meccanismo rimane estremamente incerto.

La ricchezza delle famiglie italiane e l’ipotesi di una patrimoniale

Le famiglie italiane vengono tipicamente dipinte come particolarmente “ricche” sia in termini assoluti che nel raffronto internazionale. A quanto ammonta e come è suddivisa questa ricchezza? Potrebbe risultare aggredita da una imposta di tipo patrimoniale e a quanto ammonterebbe il gettito erariale? Secondo la più recente indagine congiunta tra ISTAT e Banca d’Italia su “La ricchezza delle famiglie e delle società non finanziarie italiane”, con dati aggiornati a fine 2017, le famiglie disponevano di una ricchezza netta (totale delle attività reali e delle attività finanziarie, al netto delle passività finanziarie) di circa 9.700 miliardi di euro, pari a circa il 545% del PIL domestico, più di otto volte il reddito lordo disponibile e quasi sei volte quello netto. Sono però le abitazioni ad incidere per quasi il 50% sulla ricchezza lorda degli italiani (poco meno del 300% del PIL), a fronte di un peso inferiore delle attività finanziarie. Tra queste sono peraltro i depositi ad occupare il peso più rilevante (circa il 31% delle attività finanziarie e il 13% della ricchezza lorda). A fine 2017 le famiglie italiane disponevano di circa 1.360 miliardi di liquidità sui conti correnti, quasi il 90% del pil domestico.

Diverse ipotesi di patrimoniale

Alla luce dell’ingente ricchezza degli italiani sarebbe quindi sufficiente un’imposta pari al 5 per mille sul patrimonio lordo complessivo per ottenere entrate fiscali aggiuntive superiori ai 50 miliardi. Ovviamente è un’ipotesi di scuola di limitata fattibilità, anche solo per ragioni di equità fiscale. Nel 2012 l’associazione AIAF (Associazione Italiana per l’Analisi Finanziaria), in un contesto storico radicalmente diverso da quello attuale, ha tuttavia proposto un’imposta soggettiva sul patrimonio del 10% più ricco della popolazione, con aliquota al 5 per mille per 10 anni escludendo le abitazioni principali, che avrebbe garantito entrate erariali pari a circa 15,5 miliardi di euro annui. In aggiunta alla patrimoniale è stata proposta l’introduzione di una detraibilità fiscale parziale dell’imposta e una rimodulazione della tassazione e degli specifici beni imponibili al fine di promuovere una maggiore equità fiscale e ridurre le disuguaglianze. Quale sarebbe il gettito generato oggi da un’imposta di questo tipo? Secondo i dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane compilata dalla Banca d’Italia e aggiornata con informazioni a fine 2016, il 10% più ricco della popolazione possiede il 44% della ricchezza a fronte di oltre il 52% delle attività finanziarie complessive. Se si escludono le prime case, le entrate annue provenienti da una patrimoniale di questo tipo si attesterebbero a quasi 18 miliardi di euro. Nel caso in cui le prime case non fossero escluse e fossero imponibili al valore di mercato, il gettito salirebbe fino a 24 miliardi annui.
La stessa Indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane riporta come il 5% più ricco della popolazione, che dispone in media di un patrimonio netto di 1,3 milioni, detiene il 30% della ricchezza netta disponibile e circa il 40% delle attività finanziarie. Nel caso di una imposta al 5 per mille sul totale delle attività finanziarie limitate al 5% più ricco della popolazione stimiamo invece un gettito aggiuntivo per lo Stato vicino agli 8,7 miliardi di euro.
Nel caso in cui tale tributo fosse esteso anche alle attività non finanziarie (prevalentemente immobili) potrebbe generare entrate per 16 miliardi.
Consideriamo inoltre l’ipotesi estrema del prelievo forzoso sui conti correnti. In ogni periodo di emergenza riemerge infatti lo spettro del prelievo forzoso sulla liquidità disponibile sui conti correnti, come quello effettuato dal Governo Amato nel 1992. Ipotizzando un’aliquota al 5 per mille, stimiamo un gettito straordinario per le casse del Tesoro di circa 7 miliardi di euro: una cifra importante, che avrebbe però un impatto molto negativo sulla crescita, risultando di fatto controproducente. Il sollievo offerto alla posizione fiscale del Paese sarebbe quindi limitato soprattutto se confrontato al potenziale impatto depressivo su consumi e investimenti delle famiglie e alla luce dell’ingente costo politico di una simile mossa. Inoltre, un’imposta di questo tipo colpirebbe in maniera diseguale le famiglie più povere. Sempre secondo i dati raccolti da Bankitalia nell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, infatti, i nuclei familiari più vulnerabili da un punto di vista finanziario detengono la propria ricchezza prevalentemente in forma di depositi, e risulterebbero quindi particolarmente danneggiati ad un prelievo forzoso sui conti correnti. Se si considera inoltre la situazione corrente di difficoltà di molte famiglie, soprattutto nelle categorie sociali più vulnerabili, in risposta all’epidemia di coronavirus e per le relative misure restrittive, ben si comprende la pericolosità di tale ipotesi di prelievo.
In realtà un’imposta sulle attività finanziarie che genera entrate significative per il Tesoro di fatto esiste già: l’imposta di bollo sui prodotti finanziari che colpisce i conti deposito e i conti titoli al 2 per mille e garantisce entrate erariali superiori a 5 miliardi annui.
Sarebbe quindi sufficiente portarla al 4 per mille per raddoppiare il gettito: il costo politico sarebbe inferiore rispetto ad un prelievo straordinario dai conti correnti. Tuttavia, l’impatto economico sarebbe altrettanto negativo e quindi sconsigliabile. Quasi metà della ricchezza degli italiani è però rappresentata dalle abitazioni, facendo quindi emergere con forza l’ipotesi di un’imposta sul patrimonio immobiliare. Al momento una imposta di questo tipo, seppur parziale, esiste già ed è di fatto l’accoppiata IMU/TASI che non colpisce però le cosiddette “prime case” (ad eccezione di quelle di lusso) e che nel 2018 ha generato un gettito per circa 20 miliardi di euro. Inoltre, secondo il rapporto “Gli immobili in Italia” realizzato dall’Agenzia delle Entrate e dal Dipartimento delle Finanze del MEF, all’interno delle normative vigenti esiste il potenziale per un inasprimento di circa il 6% delle imposte correnti che porterebbe, secondo i nostri calcoli, ad un gettito aggiuntivo di circa un miliardo di euro. Una tipica proposta per incrementare ulteriormente il gettito è legata all’estensione dell’imposta alle prime case (che rappresentano circa il 66% del patrimonio immobiliare degli italiani) o all’inasprimento per gli immobili di lusso. In realtà, il nodo chiave non è sulla tipologia di immobili colpiti dal tributo ma sul loro valore. L’IMU si calcola infatti sulle rendite catastali che, seppur opportunamente rivalutate e moltiplicate per specifici coefficienti, differiscono, in alcuni casi anche in misura significativa dall’effettivo valore di mercato degli immobili. Per esempio, la già citata IFI francese colpisce il valore di mercato degli stabili con valore superiore a 1,3 milioni, con aliquote che oscillano tra lo 0,5% e l’1,5%. La riforma per ridurre le discrepanze tra valore di mercato e rendite catastali, rimodulando il valore sulle dimensioni invece che sui numeri di vani è già in via di definizione, ma è auspicabile che venga fatta a invarianza di gettito. Si consideri infatti che incrementare l’imposizione sulle abitazioni potrebbe avere l’effetto indesiderato di deprimere ulteriormente l’economia e il settore immobiliare, che dovrebbe peraltro già risentire in maniera significativa della crisi da COVID-19. Nel caso l’imposta fosse eccessivamente elevata potrebbe infatti portare alcuni contribuenti a svendere gli immobili detenuti, paradossalmente anche a causa della necessità di provvista per il pagamento dell’imposta.
Un’ulteriore possibilità, che spesso passa in secondo piano, è l’incremento delle imposte di successione che in Italia hanno, come abbiamo visto, una lunga storia ma risultano meno severe rispetto a quelle di altri Paesi OCSE. Nel caso domestico esistono di fatto tre aliquote: 4%-6%- 8% a seconda del grado di parentela, con franchigie che vanno dai 100.000 a 1 milione di euro. Negli altri principali Paesi europei le franchigie sono più basse e le aliquote più elevate. Secondo i dati OCSE, infatti, in Italia nel 2018 le entrate erariali derivanti dalle imposte di successione sono state pari a 820 milioni di euro e dal 2008 al 2018 il gettito medio annuo è stato pari a 610 milioni, a fronte di una media di 10,5 miliardi in Francia, 5,3 miliardi in Germania, 2,6 miliardi in Spagna, 4 miliardi nel Regno Unito e 2,6 miliardi nel gruppo OCSE. Anche in percentuale rispetto alla tassazione totale il peso è inferiore rispetto agli altri Paesi (0,1% contro circa l’1% francese e una media OCSE dello 0,3%). Si segnala inoltre come anche prima dell’abrogazione nel 2001 (con reintroduzione nel 2006) l’imposta sulle successioni in Italia generava entrate fiscali superiori rispetto a quelle odierne (circa 1 miliardo di euro) ma comunque inferiori rispetto agli altri Paesi.
Nella nostra analisi, precisa Intesa Sp, ci siamo concentrati sulle imposte patrimoniali sulle persone fisiche ma questo tipo di prelievo può ugualmente colpire anche le imprese. Come evidenziato nella disamina storica infatti, in casi di emergenza, le patrimoniali a famiglie e imprese sono state spesso associate. Un esempio è l’imposta sul patrimonio netto delle imprese introdotta nel 1992 che è sopravvissuta, con varie modifiche, fino al 1997 quando fu uno dei tributi sostituiti dell’IRAP, un’imposta tuttora in vigore che colpisce le imprese a prescindere dall’utile. L’IRAP colpisce infatti il fatturato e il costo del lavoro, anche nel caso di imprese in perdita netta, ed è quindi in parte assimilabile al concetto di “patrimoniale”.
Nel complesso però, alla luce del contesto macroeconomico corrente, un inasprimento delle imposte esistenti finalizzato al mero incremento delle entrate risulterebbe controproducente. All’impatto deleterio sulla crescita economica di un aumento della tassazione si assocerebbe anche il rischio di una fuga di capitali, che potrebbe danneggiare ulteriormente le finanze pubbliche. Diversa invece l’ipotesi di una rimodulazione delle imposte sul patrimonio preesistenti con l’obiettivo di invarianza del gettito, o di una sua diminuzione, migliorando però l’equità fiscale e riducendo il carico fiscale su lavoro e imprese. In conclusione, l’ingente ricchezza delle famiglie italiane rappresenta una importante risorsa e, come abbiamo visto, giace in gran parte nei conti correnti. La strada corretta per sfruttarla è quella di incoraggiare gli investimenti e quindi stimolare la crescita piuttosto che eroderla con una imposta patrimoniale.
Ora il report della banca milanese si conclude. Il livello del debito pubblico che l’Italia si avvia a raggiungere nel 2020 è probabilmente superiore al 150% del pil. ne deriva la necessita di valutare strategie per una riduzione che renda il debito pubblico italiano meno esposto a giudizi di insostenibilità, soprattutto alla luce della perdurante dipendenza dal mercato internazionale dei capitali. La storia italiana ci insegna che la crescita economica, il contenimento del costo del debito e politiche di bilancio prudenti, quando possibile, sono strumenti utili di contenimento e di riduzione graduale del debito. Il contesto istituzionale europeo e le nuove politiche monetarie dirette all’acquisto di titoli di Stato offrono tuttavia nuove opportunità per misure ad hoc non traumatiche per la riduzione del debito pubblico, agevolandone il rientro verso livelli più sostenibili. La perseguibilità di tali misure è complessa da un punto di vista politico ma non impossibile. Un giusto mix di azioni di politica economica dirette al contenimento dei tassi e allo stimolo della crescita (azioni sui flussi) e di interventi specifici per la riduzione del debito, come l’utilizzo di parte del patrimonio pubblico, una mutualizzazione parziale, qualche forma di monetizzazione e di ristrutturazione volontaria (azioni sugli stock) rappresentano azioni che potrebbero ridurre drasticamente (più del 60% in 10 anni) il peso del debito sulle famiglie italiane. Misure straordinarie come la patrimoniale sarebbero dannose e controproducenti poiché profondamente recessive. Serve invece una riforma organica del sistema fiscale per renderlo più funzionale alla crescita economica, all’equità e alla sostenibilità del debito pubblico.
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