D'Amato: «Il Sud farà ripartire l'Italia, lo Stato gestisca i fondi Ue»

D'Amato: «Il Sud farà ripartire l'Italia, lo Stato gestisca i fondi Ue»
di Nando Santonastaso
Domenica 9 Agosto 2020, 10:01
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Presidente D'Amato, perché l'introduzione della fiscalità di vantaggio per le aziende che operano al Sud, su cui lei già 25 anni fa - prima da delegato al Mezzogiorno e poi da presidente di Confindustria - aveva insistito tanto, può essere considerata un segnale di svolta per ridurre i divari territoriali del Paese?

«Perché è il primo, importante tassello di un Piano più complessivo che deve puntare al rilancio degli investimenti e della competitività del Mezzogiorno che è fondamentale per rimettere in moto tutto il Paese. Per ricostruire l'Italia e riequilibrare il rapporto tra debito pubblico e Pil bisogna riavviare la capacità di crescita del Sud. Basta dare uno sguardo ai dati sull'occupazione per non avere dubbi: al Sud il tasso di occupazione non supera il 43% contro il 68-70% del Settentrione e una media nazionale del 58%. Queste statistiche pre-Covid testimoniano in tutta la loro gravità il paradosso italiano: il Nord è ormai saturo e la sua capacità di crescita incrementale non può che essere marginale laddove il Mezzogiorno ha ancora un enorme potenziale di sviluppo che è indispensabile realizzare non solo per garantire l'equilibrio sociale, ma anche la sostenibilità dei conti del Paese».

Tutti qui i paradossi?
«No, ce n'è un altro, molto emblematico. L'Italia non solo è molto al di sotto della media europea, ma è lontana persino dal livello dei Paesi dell'Est con cui competiamo in termini di attrazione degli investimenti. Il Mezzogiorno, fino agli anni Novanta, era un'importante destinazione per gli investimenti nazionali e internazionali. Salvo significative eccezioni che hanno continuato a credere nel Sud, molte realtà produttive sono state delocalizzazione in Paesi dell'Est Europa che ancora oggi godono, al tempo stesso, di importanti incentivi per investimenti ma anche di condizioni di competitività sul piano del costo del lavoro, delle politiche fiscali sul reddito d'impresa e anche sulle stesse condizioni di insediamento industriale. Un esempio per tutti: l'industria automobilistica italiana produceva da noi fino a qualche anno fa 2,5 milioni di vetture, oggi stentiamo a raggiungere il mezzo milione».

Ripartire dal Mezzogiorno per ricostruire l'Italia, dunque: ma quanto tempo ci vorrà, realisticamente?
«L'obiettivo minimo che dobbiamo darci è creare un punto, meglio ancora un punto e mezzo all'anno di occupazione al Sud per almeno dieci anni. Così sarà possibile risanare la frattura sociale, civile ed economica che è alla base dei divari, che produce un'emorragia continua di giovani che lasciano il Mezzogiorno. La fiscalità di vantaggio va in questa direzione e va dato atto al governo Conte e ai suoi ministri, da Provenzano ad Amendola, da Boccia a Gualtieri, alla Bellanova di avere consapevolmente indicato il Mezzogiorno come il punto obbligato di riequilibrio per il futuro del Paese».

Naturalmente la defiscalizzazione degli oneri sociali da sola non può bastare.
«Infatti, anche perché siamo in presenza di una crisi globale. L'Italia ha tre sfide davanti a sé. La prima è riuscire a sincronizzare una fase di ristrutturazione del sistema produttivo, che potrà comportare anche consistenti esodi di manodopera, con una robusta accelerazione degli investimenti infrastrutturali per poter riassorbire i lavoratori in esubero e creare occupazione addizionale. Bisogna cioè far partire subito gli investimenti pubblici e creare le condizioni perché ripartano anche quelli privati».

Come, presidente?
«Penso ai 160 miliardi di infrastrutture già cantierabili in tempi brevissimi, cui dovranno sommarsi gli investimenti per il risanamento idrogeologico, le bonifiche ambientali e il recupero delle grandi aree urbane: gli investimenti pubblici, insomma, possono e devono ripartire subito per bilanciare anche i necessari aggiustamenti che il sistema produttivo dovrà realizzare per affrontare le crisi strutturali dei mercati».

Seconda sfida?
«Il prelievo fiscale sul reddito di impresa in Italia è troppo alto. E nel Mezzogiorno ancor più alto per effetto delle addizionali regionali e comunali basate sulla vecchia logica del federalismo fiscale. Sono una zavorra autentica specie se rapportata al bassissimo livello di qualità e di efficienza dei servizi pubblici offerti. Per rendere il Mezzogiorno nuovamente attrattivo per gli investimenti dobbiamo garantire un vantaggio di almeno dieci punti in meno di pressione fiscale sul reddito d'impresa. Ancora una volta guardiamo ai Paesi europei che oggi competono con noi e che hanno politiche fiscali e un costo del lavoro nettamente inferiore: come possiamo pensare che le aziende non delocalizzino, andando via dal Mezzogiorno? E glielo dice uno che continua a investire qui al Sud, come del resto fa anche il caro amico Grimaldi a proposito della sua azienda».

Ma misure come la fiscalità di vantaggio devono valere solo per il Sud anche in futuro?
«Nella nostra visione, la decontribuzione del costo del lavoro e la riduzione dell'imposizione fiscale sul reddito di impresa devono rappresentare una condizione di differenziale competitivo per il Mezzogiorno oggi, ma devono diventare uno standard per il Paese domani. Ora abbiamo l'imperativo di far ripartire la crescita del Sud e con questa crescita potremo permetterci anche una riduzione dei gap competitivi per l'Italia intera».

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E la terza sfida?
«Allineare gli incentivi alle best practices. Ovvero, diventare attrattivi sapendo che nel mondo tutti fanno la stessa cosa, dalla Baviera ai singoli Stati degli Usa. I nostri tempi invece sono due, tre volte superiori per l'approvazione dei Contratti di sviluppo e non abbiamo incentivi per chi vuole investire tra uno e 20 milioni, una fascia invece particolarmente importante per rilanciare gli investimenti manifatturieri. Prima esisteva la legge 488 che aveva prodotto risultati importanti, poi si è deciso di regionalizzarla perdendo sempre più efficacia fino a quando non è stata abolita. Ma come si fa ancora oggi a pensare che si possa coniugare debito pubblico e Pil se non si mette mano alla crescita? C'è un limite oltre il quale è impensabile tagliare ora la spesa pubblica. Serve al contrario, rimettere in moto la leva del Sud per garantire sviluppo al Paese. La strada è questa».

Se si guarda alle risorse spese male per esempio dalle Regioni il sospetto che la stagione degli sprechi non sia finita resta molto alto, che ne pensa?
«Dobbiamo squarciare il velo su tutto ciò che non ha funzionato nel regionalismo italiano, a partire dall'insostenibile squilibrio creato dalla riforma del Titolo Quinto della Costituzione. Io rivendico una politica nazionale che ricostruisca l'Italia partendo dal Sud ma sono preoccupato dai troppi esempi di scarsa efficienza e di inadeguato governo del territorio fatto dalle regioni meridionali e non solo. Non investire in maniera efficace e trasparente risorse in un Paese affamato di investimenti e sviluppo non è solo uno spreco è una responsabilità morale e politica gravissima. Bene sta facendo il Mattino ad evidenziare quotidianamente, e in maniera chiara, singoli e significativi casi di sprechi e inefficienze della spesa pubblica nel Nord Italia. Questo serve a rendere chiaro a tutti che il malgoverno non è una prerogativa solo meridionale. Ciò detto, è veramente inaccettabile che proprio le Regioni del Mezzogiorno da trent'anni continuino a sprecare i fondi strutturali non sapendoli né programmare né investire. La Regione Campania, ad esempio, non ha saputo investire dieci miliardi di fondi in questa legislatura nonostante la fame di lavoro e di sviluppo che abbiamo qui da noi».

Come si potrebbe rimediare?
«Affidando allo Stato centrale l'80% della gestione delle risorse europee e alle Regioni il restante 20%. Tutti i Paesi che hanno gestito con queste modalità i fondi strutturali hanno fatto negli anni molto meglio di noi. Ora dobbiamo aprire una pagina nuova dello sviluppo del Mezzogiorno, senza complessi di inferiorità, e rivendicarne la centralità senza le vecchie ricette che non hanno saputo funzionare. Possiamo e dobbiamo farcela».
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