La cura del cavallo
che serve al Sud

di Oscar Giannino
Domenica 10 Dicembre 2017, 12:39
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Guardiamoci negli occhi. Abbiamo tutti i dati possibili che fotografano i gap del Mezzogiorno. Siamo il Paese europeo in cui il divario interno tra reddito pro capite, occupazione, produttività è più accentuato che in qualunque altro. Quasi un meridionale su due è esposto al rischio povertà, al Nord il rischio vale per il 18% dei residenti. Un meridionale su 10 è in povertà assoluta, al Nord poco oltre il 6%. L’occupazione tra i 25 e i 64 anni al Nord è sulla media europea, del 70%. Al Sud è di 24 punti percentuali inferiore.

Il calo dell’industria manifatturiera dal 2008 al 2016 è stato di quasi il 30% al Sud, il 9% al Nord. Il calo del valore aggiunto per occupato manifatturiero è stato negli stessi anni di quasi il 30% maggiore al Sud che al Nord, -6% rispetto a -4,6%. Il valore aggiunto per occupato nell’industria in senso stretto, senza costruzioni, era al Sud l’87,9% rispetto al Nord nel 2008, nel 2016 era sceso al 70,2%. La demografia al Sud ha un andamento più disastroso che al Nord, con un tasso di fecondità per donna sceso a 1,2 rispetto a 2 che è il tasso di equilibrio, mentre al Nord c’è qualche segno di risveglio verso l’1,4 e al netto della componente immigrati.

Certo, nel 2015 e 2016 la ripresina italiana in termini di Pil territoriale è stata superiore al Sud che al Nord. Ma già in questo 2017 la tendenza pare invertita. E, in ogni caso, in presenza di simili gap, non ha molto senso considerare gli andamenti in termini congiunturali. Occorre guardare a quelli strutturali, di medio-lungo periodo, quando si parte da basi di partenza così diverse. Se estendiamo lo sguardo temporale, fatto pari a 100 il 1995, il Pil del Nord a fine 2016 era salito a 117 mentre quello del Sud a 102,7, e i consumi erano saliti a 118,8 al Nord rispetto a 101,4 al Sud.
Ed è di interventi di medio-lungo periodo dunque che bisogna parlare, non di bonus a tempo. Soprattutto se abbiamo in mente le vere vittime di questo disastro. Cioè, oltre ai poveri, i giovani, che non stanno partecipando alla ripresa dell’occupazione in un quadro già deprimente a livello nazionale (In Italia siamo scesi al 16,5% di giovani occupati tra i 15 e i 24 anni rispetto al 25% del 2005, mentre in Germania sono quasi il 50% e nel Regno Unito oltre il 60%). Giovani che storicamente sono in fuga dal Sud, soprattutto quelli a maggior capitale umano formato: ma è anche vero che negli ultimi anni il flusso generale dal Sud al Nord è in calo, dai 122mila del 2001 ai 96 mila del 2016. 

Semplificando in termini estremi, davanti a noi ci sono tre strade. Quella già indicata nel 2016 e 2017 dai due decreti-Sud e dalla legge di bilancio 2018. Quella di misure correttive a favore del Sud nell’ambito degli strumenti ordinari di bilancio pubblico. Infine una terza via, magari da aggiungere alle prime due ma più radicale: misure straordinarie, incardinate in una ridefinizione strategica della priorità-Sud, e del modo di proporla al tavolo europeo.
Sulla prima via non mi dilungo. Gli incentivi Industria 4.0 di Calenda, per l’Italia benefici più di ogni altro intervento di questa legislatura che volge al termine. Le Zes. Il fondo Resto al Sud per la nuova imprenditorialità (son solo decine di milioni, però). La riserva per il Sud del 34% del totale della spesa in conto capitale pubblica nazionale. La decontribuzione per i giovani assunti a tempo indeterminato che resta al Sud totale. Tutte misure utili: ma nessuno immagina che aggrediranno nel medio-lungo periodo gap meridionali della consistenza che abbiamo ricordato. A cominciare dal fatto che Industria 4.0 riguarderà necessariamente più il Nord che il Sud, visto che al Sud opera un magro 9% delle 6mila medie imprese leader del quarto capitalismo italiano censito da R&S di Mediobanca. Svimez ha puntigliosamente calcolato quanto sia bassa la quota parte per il Sud, sul totale delle platee industriali interessate a super e iper ammortamento, rifinanziamento della legge Sabatini ter, e via proseguendo.

La seconda strada è quella proposta proprio dalla Svimez: più spesa pubblica, più incentivi al Sud, riserva del 34% estesa dagli investimenti a tutta la spesa corrente, ruolo massiccio della Cdp, politiche industriali pubbliche di settore per il Sud a forte impronta dirigista. In un quadro di forte polemica contro il regionalismo differenziato attivato dai referendum in Lombardia e Veneto, paventando che trattenga risorse aggiuntive al Nord.

La terza via è diversa: parte da una profonda consapevolezza che postula un cambio radicale. La consapevolezza è che la maggior asimmetria interna di un Paese europeo non si affronta solo con misure ordinarie, né pensando per un solo secondo di rifar nascere i vecchi e fallimentari istituti dell’intervento straordinario della prima Repubblica. In cosa può allora consistere, una nuova era di misure straordinarie? Servirebbe un saggio intero per descriverlo. Ma mi limito a quattro caposaldi. 

Primo: abbiamo bisogno di portare la nostra emergenza meridionale in Europa. Non chiedendo più deficit, ma al contrario incardinando il Sud in una nuova strategia di credibilità e affidabilità europea del nostro Paese. Un buon esempio è la proposta elaborata da Carlo Bastasin, lanciata in un paper della Luiss due settimane fa. L’impegno a una riduzione del debito pubblico italiano al 100% del Pll in un quadro pluriennale, coinvolgendo l’Esm europeo che riscatterebbe quote degli oltre 300mld di titoli pubblici italiani in pancia alla Bce, e come garanzia del loro annullamento abbatti-debito la costituzione di un fondo segregato italiano di attivi immobiliari pubblici, a garanzia dell’obiettivo. In cambio di questo impegno, la richiesta di autorizzare da parte europea misure straordinarie ad hoc per il Sud, anche fuori dal quadro di finanziamenti dei fondi strutturali europei. 
Secondo: quali impegni? 

Ad esempio una riforma fiscale organica che preveda per un lasso di tempo definito, e collegato a indicatori di recupero dei gap accumulati, aliquote differenziate per il Sud. In cambio dello stop progressivo della quota che va al Sud dei 50 miliardi di trasferimenti a fondo perduto oggi ancora presenti nel nostro bilancio nazionale, di cui la metà in conto corrente e metà in conto capitale. 

Poi, l’avvio imponente al Sud di politiche attive del lavoro, concentrando su questo l’Agenzia nazionale guidata da Maurizio Del Conte. Al Nord le politiche attive chiedono alla mano pubblica di essere solo garante degli standard offerti dai soggetti accreditati, i grandi player privati dell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro basata sulla formazione professionale di chi va ricollocato. Al Sud no: serve un ruolo più attivo dello Stato. È al Sud che occorre in pochissimo tempo moltiplicare gli Its e l’offerta formativa professionalizzante.

Terzo: serve anche al Sud il regionalismo differenziato. Non è diverso che al Nord: per ognuna delle 23 materie oggi indicate in Costituzione come attivabili per il regionalismo differenziato, secondo l’articolo 116 della Costituzione, raggiunta un’intesa lo Stato è costretto a devolvere le risorse necessarie a esercitarle. È l’esatto opposto di quel che teme la classe politica meridionale: significa superare d’un balzo i vincoli centrali che in questi anni hanno imposto nel centro Sud, ad esempio, piani di rientro coatto della sanità non commisurati all’offerta di servizio offerta ma solo ai saldi di spesa. Col risultato che il turismo sanitario verso il Nord è aumentato di oltre un quarto. 

Quarto, anche se dovrebbe essere scontato: un grande piano che indichi obiettivi quantitativi progressivi e misurabili di eradicazione della criminalità, di quella grande come di quella micro. L’emergenza dell’illegalità persistente al Sud lascia indifferente da tropo tempo l’Italia: dalle sparatorie di minori affiliati alla camorra a Napoli, a oltre un terzo di più di 300 omicidi in 15 anni avvenuti a Foggia e rimasti senza colpevoli e mandanti. 
Credo più a un piano straordinario condiviso da tutta la politica nazionale, che a strumenti ordinari e alla via del deficit o a quella dello Stato dirigista.
Diceva madame de Stael che l’Italia le sembrava «un pays où il n’y a pas de société» («un Paese dove non c’è società»). Bisogna tornare all’idea che il Sud si salva creando una società viva di suo, dove impresa e lavoro tornino a fiorire: ma lo deve volere l’intera società italiana.

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