Lavoro, vince l'italian food: se i pizzaioli sono pagati più degli avvocati

Lavoro, vince l'italian food: se i pizzaioli sono pagati più degli avvocati
di Nando Santonastaso
Mercoledì 24 Gennaio 2018, 09:56 - Ultimo agg. 16:06
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All’estero, secondo i dati dell’Istituto nazionale pizzaioli (2017), vanno a ruba quelli meridionali e campani in particolare, specie ora che la pizza italiana è finita sotto la protezione dell’Unesco. Pur di averli, i datori di lavoro stranieri sono pronti a pagarli con stipendi superiori, in media, a quelli garantiti nel nostro Paese, storica culla di questo mestiere. Si va dai 2.100 euro mensili della Svizzera, vitto e alloggio compresi, ai 3mila euro dell’Australia e ai 2.800 euro del Canada mentre Germania e Gran Bretagna garantiscono 1.800 euro più vitto e alloggio. Da noi la retribuzione media di un pizzaiolo oscilla sui 1.600 euro che sono comunque quasi il doppio di quanto il titolare di uno studio forense riconosce a un suo giovane avvocato (se gli va bene) a parità di ore di lavoro, spesso non meno di dieci al giorno.  

Se dai forni a legna si passa alle grandi cucine, la tendenza emerge in maniera pressoché analoga: lo stipendio medio di un cuoco (dati anche in questo caso riferiti al 2017) possono andare soprattutto nelle grandi città come Napoli dai 1.400 ai 3mila euro mensili ma un capocuoco può arrivare a 7mila euro e un lavapiatti a circa mille euro (per curiosità, questi ultimi in Germania guadagnano 9,71 euro all'ora). Sono solo un paio di esempi di quanto sia cambiato e continui a mutare l'ascensore sociale in Italia per effetto della crisi economica soprattutto, ma non solo di essa. Il gran successo del food made in Italy nel mondo e la riscoperta dell'intera filiera agroalimentare hanno spinto verso l'alto, in termini sia di stipendi sia di concrete opportunità occupazionali, mestieri un tempo non così ricercati. E, soprattutto, hanno creato modelli di notorietà mediatica del tutto competitivi con quelli che un tempo sembravano inavvicinabili per livello di studi e competenza, dagli scienziati della medicina ai docenti universitari. Un grande chef fattura come una piccola impresa manifatturiera di 5 dipendenti ma con picchi di audience - anche solo sui social - enormemente più alti. Sul fondo annaspano, al contrario, professioni che continuano ad attrarre studenti anche se nessuno è più in grado di assicurare loro un lavoro stabile e ben remunerato dopo la laurea. Gli avvocati, ad esempio, ma non solo loro. Un altro allarme dello stesso tenore si è ormai diffuso pure nei settori più avanzati sul piano tecnologico: «Oggi tutti cercano gli analisti di dati ma non li trovano: i dati ci sono e in abbondanza, manca chi sappia analizzarli correttamente», dice Marco Bentivogli, segretario dei metalmeccanici della Cisl, con un occhio molto attento ai fenomeni dell'innovazione digitale nel mondo del lavoro. E aggiunge: «Anche nell'industria manifatturiera e nell'edilizia lo squilibrio esiste: provate a cercare un saldatore, se lo si trova, costerà sicuramente parecchio».
 
Cosa sta succedendo? Da una parte un'Italia che, come dice Luca Bianchi, prossimo nuovo direttore della Svimez, «sembra legarsi sempre più alle caratteristiche peculiari dei suoi territori, come nel caso della valorizzazione dei prodotti agroalimentari ormai apprezzati in tutto il mondo» sull'acceleratore delle nuove professioni per accrescere la sua competitività (specie verso i Paesi emergenti). Dall'altro un'Italia che dovrebbe spingere sull'acceleratore delle nuove professioni per accrescere la sua competitività (specie verso i Paesi emergenti) ma che in realtà non riesce ancora a fare incontrare domanda e offerta, visto che all'appello mancano ben 80mila specialisti nell'Ict, secondo i dati di Ernst&Young. «C'è un evidente problema di skills mismatch, come dicono gli esperti, ovvero si allarga la forbice tra le professionalità richieste e quelle che ci sono. Perché succede? Perché la scuola non interagisce con l'università, l'università non interagisce con il sistema delle imprese e così via. In altre parole, manca una reale integrazione tra formazione e mondo del lavoro come avviene in altri Paesi europei, Germania in testa», spiega il sindacalista.

La sensazione è che anche il mercato del lavoro, soprattutto quello di non altissima qualificazione, cerchi nuove strade avendo ormai accettato che in Italia la meritocrazia fa decisamente fatica a imporsi e anzi è costretta sempre di più a difendere certe posizioni. «Ma stiamo attenti a non generare confusione frena Alessandro Laterza, ex delegato di Confidustria per il Mezzogiorno e apprezzato imprenditore del settore editoria - perché a me non dispiacerebbe affatto vedere tanti pizzaioli o cuochi, a condizione che per tutti ci siano stipendi adeguati al loro valore. L'impressione invece è che in ogni settore, da quelli tradizionali a quelli più selettivi, rimangano forti differenze. Per uno che emerge ce ne sono altre centinaia che fanno fatica. La verità è che in Italia non esiste più un percorso prevedibile nelle opportunità di lavoro: nessuno può garantire un miglioramento economico certo e anche all'estero, dove comunque ci sono più opportunità che da noi, lo scenario è meno brillante di quanto può sembrare a chi cerca solo ideologia».

È vero però che un ascensore sociale rivolto verso il basso finisce per incoraggiare mestieri o attività di cui forse gli italiani hanno dimenticato troppo in fretta le potenzialità. Dice Bianchi: «Il terziario, soprattutto quello dei servizi di assistenza alle persone anziane, mostra segnali di vitalità interessanti ma anche in questo campo non ci si improvvisa e soprattutto non si può rinunciare a livelli di formazione moderni e adeguati». Lo dimostra proprio l'esperienza di Bianchi che nell'ambito della sua attività al ministero delle Politiche agricole ha organizzato corsi per i dipendenti dei consorzi agrari basati su elementi di forte innovazione: «È una strada irrinunciabile per tutti, dai pizzaioli a grandi performers dell'innovazione tecnologica spiega e soprattutto al Sud dove pure gli investimenti in banda larga si stanno facendo in maniera molto consistente».

Insomma, tutto o quasi si trasforma anche se lo scenario nazionale induce a un certo pessimismo. Nei Paesi come l'Italia in cui si fa più fatica a migliorare la propria condizione economica in rapporto al titolo di studio resta altissimo il numero dei neet (i giovani che non studiano e non cercano un lavoro) e il livello di precarietà salariale. «Ma non dimentichiamo che l'80 per cento degli studenti dell'ultimo anno degli Istituti tecnici superiori trova entro poco tempo un'opportunità di lavoro insiste Bentivogli a riprova del fatto che se si mettono a regime le politiche per l'occupazione la prospettiva migliora e non di poco».

Giusto ma intanto, come ha rilevato lo scorso anno l'Istat, bisogna fare i conti con la cristallizzazione della società italiana verso il basso che si può riassumere in un solo, sconcertante dato: il 68% dei giovani sotto i 34 anni continua a vivere con i propri genitori. Non sono tutti neet, certo, moltissimi hanno probabilmente lavori e lavoretti sottopagati e con contratti a termine: ma di sicuro è da loro che bisognerebbe ripartire per ricostruire un minimo di mobilità sociale. Perché è il presupposto di un Paese che oltre al Pil fa crescere anche i meriti.
 
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