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Se il calcio inglese è un derby in famiglia nel segno del Qatar

L’ultima sfida sul Manchester United: bussa l’orgoglio british

di Michele Di Branco
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 1 Marzo 2023, 14:25 - Ultimo agg. : 2 Marzo, 07:47
4 Minuti di Lettura

L'ultima trincea – prima che il calcio a Manchester finisca interamente nelle mani del Qatar consegnando la città agli arabi e trasformando il derby City-United in una disputa tra parenti di stanza a Doha – l’ha scavata un magnate inglese, Jim Ratcliffe.

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Sei miliardi di sterline sul piatto per convincere il miliardario Usa Glazer a vendergli il Manchester United, pagato a suo tempo appena 1,5 miliardi. Una bella plusvalenza. «Consideriamo il nostro ruolo come quello di custodi a lungo termine dello United per conto dei tifosi e della comunità», ha fatto sapere Ratcliffe solleticando le corde dell’orgoglio inglese. Ma la partita è difficile da vincere. L’orgoglio inglese è una bella cosa ma i 7 miliardi promessi da Jassim Bin Hamad Al Thani, nipote di Tamim bin Hamad Al Thani, emiro del Qatar e proprietario del Psg, costituiscono un argomento piuttosto solido.

LEGAMI DI PARENTELA

 Il banchiere che punta allo United è figlio dell’ex primo ministro del Qatar, Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani. Imparentato anche col proprietario del Manchester City, Mansur bin Zayd Al Nahyan, cugino di Tamim Al Thani, Jassim Al Thani è il presidente di una delle più grandi banche del Qatar: la “Qatar Islamic Bank”. In buona sostanza, se l’operazione andasse in porto, City, United (in compagnia del Psg) sarebbero interamente controllate dal Qatar. La ragione per la quale gli arabi, come gli americani, abbiano questa fame di calcio inglese (una bulimia che preoccupa il governo di Londra, che ha messo a punto una legge, il “White book”, per controllare iscrizioni, bilanci e pedigree dei manager) è presto detta: la Premier League fattura ormai 7 miliardi seminando le altre leghe europee e viaggia spedita verso conti finanziari prossimi alla Nba, il campionato di basket statunitense. In pratica, la Superlega europea naufragata miseramente due anni fa c’è già: basta attraversare la Manica. C’è un rapporto stilato da Deloitte che disegna in maniera plastica il quadro della situazione. Infatti, ben 11 squadre delle 20 più ricche del panorama calcistico mondiale sono inglesi. Dato in aumento se consideriamo le prime 30 vista la presenza di Aston Villa (21°), Leeds (23°), Southampton (26°) e Newcastle (29°). Se diamo per scontata la presenza di squadre come Manchester City (1°), Man Utd (5°), Liverpool (7°), Chelsea (8°), Tottenham (10°) e Arsenal (11°) all’interno della classifica, lo stesso non si può dire per presenza di outsider come Leicester (15°), West Ham (16°), Wolves (17°) ed Everton (18°) all’interno della stessa graduatoria. Se rispetto a quattro stagioni fa per l’Everton non si tratta di una novità, le altre quattro rappresentano delle new entry in quanto non erano presenti. Per il Wolverhampton si tratta addirittura della prima apparizione in assoluto in 25 anni di redazione del report Deloitte.

L’ANALISI

Appare necessario analizzare, però, come queste squadre di “seconda fascia” rispetto alle big del calcio inglese, siano arrivate a ottenere questo risultato. Osservando i principali punti di forza dei club di Premier League a livello gestionale si è sempre presa come riferimento la potenza commerciale che le società inglesi possono vantare in termini di risultati. Oltre questo, però, un grosso vantaggio è rappresentato dalle grandi cifre che circolano in Inghilterra in termini di ricavi da broadcaster per la vendita di diritti Tv nel Regno Unito e all’estero. I diritti Tv vengono venduti per 4,1 miliardi di sterline l’anno (la metà sul mercato estero) e se per le big del calcio inglese (Man City, United, Liverpool, Chelsea, Tottenham e Arsenal) il peso percentuale dei ricavi da diritti Tv sul totale del fatturato va dal 51,58% del Man Utd fino al 62,66% del Chelsea, per le squadre inglesi di “seconda fascia” il peso percentuale dei ricavi broadcast ha un’incidenza decisamente più pesante. Il risultato di questa opulenza diffusa è, ad esempio, che un club in lotta per non retrocedere come l’anonimo Bournemouth possa arrivare a offrire 30 milioni di sterline alla Roma per l’irrequieto Zaniolo nel mercato di gennaio. Da molti anni, peraltro, la Premier League domina il mercato di compravendita dei calciatori. Secondo quanto riporta Transfermarkt, nel 2022 il massimo campionato inglese ha investito 2,24 miliardi di euro per le operazioni in entrata, a fronte di un incasso complessivo – ovviamente relativo agli affari in uscita – di 884,81 milioni. Una semplice sottrazione ci dice che le venti squadre di Premier hanno speso 1,36 miliardi di euro.

IL CONFRONTO

 La distanza tra la Premier e tutte le altre leghe top in Europa è davvero abissale, per tanti motivi: basti pensare che la Liga spagnola ha un disavanzo complessivo di -52,44 milioni di euro, a fronte di 505,69 milioni di investimento e 453,25 milioni di ricavi. Praticamente una cifra inferiore di 26 volte rispetto a quella della Premier. In Italia, la situazione è leggermente migliore. Ancora secondo Transfermarkt, le squadre di Serie A hanno investito 749,23 milioni per gli affari in entrata e ne hanno incassati 745,82 per quelli in uscita, per un disavanzo negativo di 3,41 milioni. Resta la Bundesliga, in Germania il bilancio è positivo per circa 45 milioni in virtù dei 484,08 milioni investiti per le operazioni in entrata e dei 528,74 milioni spesi per quelle in uscita. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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