Hub italiano del gas, sul “piano Mattei” la mina autonomia

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di Gianni Bessi
Mercoledì 1 Febbraio 2023, 13:37 - Ultimo agg. 2 Febbraio, 07:39
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Un nuovo “Piano Mattei”, mirato a trasformare l’Italia nell’hub dell’energia europea, non è irrealistico: la mappa dei giacimenti di gas esistenti va dall’Azerbaijan all’Est-Med con al centro Cipro, passando per le coste del Nord Africa, dell’Egitto, della Libia, dell’Algeria.

Dunque, sulla carta abbiamo tutte le caratteristiche per diventare la cerniera attraverso la quale far transitare 140 miliardi di metri cubi di oro azzurro, via pipeline e via rigassificatori, capaci di soddisfare il nostro fabbisogno e quello di una parte dell’Europa.

La questione semmai riguarda le infrastrutture, che debbono essere adeguate ai nuovi ipotetici flussi previsti dal piano, molto più robusti rispetto alle capacità attuali. Dunque, va potenziato il Trans Adriatic Pipeline (Tap) che trasporta in Europa il gas dal giacimento di Shah Deniz II in Azerbaijan, tanto per cominciare. Poi vanno risolti i vari colli di bottiglia nei flussi sud-nord, aumentata la dotazione di rigassificatori mettendone in funzione altri e completata la rete adriatica progettata da Snam. Oltre a ciò resta aperta la questione di una ripresa dell’attività estrattiva nazionale, che ha una potenzialità tutt’altro che irrilevante: tra 70 e 200 miliardi di metri cubi in vari giacimenti scoperti o mappati che le nuove tecnologie e la spinta del mercato rendono assai competitivi.

LA SFIDA

La trasportabilità della “molecola” è insomma il vero tema strategico da affrontare per arrivare a una modifica della geografia delle forniture, passando da quella Est-Ovest in vigore fino all’invasione dell’Ucraina a uno schema Sud-Nord con al centro il Mediterraneo e l’Africa. Affrontare questi bisogni nel presente significa anche volgere lo sguardo al futuro verso una direttrice Sud-Nord da riadattare all’idrogeno quando ci saranno le condizioni. Abbiamo il potenziale, uomini e mezzi per affrontare il timing della sfida. Eni, Snam, Saipem ci sono invidiati da tutto il mondo. Ma è pronto il sistema-Italia ad accogliere la sfida? Perché altri competitor sono in campo, come la Turchia che dispone del corridoio Tanap verso i Balcani, e la sua determinazione è nota fin da quando dispiegò le sue navi da guerra davanti a Cipro proprio di fronte alle strutture Saipem che operavano per l’Eni. Insomma, per diventare un hub energetico a tutto tondo non basta risolvere il tema della produzione, del trasporto e dello stoccaggio: dobbiamo confrontarci una volta per tutte con il sistema elettrico, visto che la transizione energetica in agenda con le tappe 2030 e 2050 richiede che l’elettrificazione diventi dominante. Finora, per realizzare gli obiettivi assai ambiziosi di decarbonizzazione abbiamo preteso di potenziare le Fer, ovvero le energie rinnovabili, omologandole alle non-Fer (cosiddetto modello fotocopia) piuttosto che integrarle veramente. Ciò significa valorizzare le loro peculiarità - non hanno costi variabili significativi - e offrire soluzioni di sistema alle loro criticità: idroelettrico, fotovoltaico ed eolico non garantiscono un bilanciamento tra energia prodotta e quella consumata, non conoscono stoccaggio naturale, quindi lo dobbiamo predisporre con alti costi conseguenti. Il modello fotocopia però funziona sino a quando le Fer sono una quota minoritaria della produzione elettrica, mentre ora che sono arrivate al 35% è diventato un non senso. A ciò si aggiunga la volontà di concentrare le rinnovabili al Sud, con la consapevolezza che però la domanda energetica è maggiore nel Nord produttivo. Di qui l’idea di candidarci a convogliare nel nostro Paese anche la produzione di energia rinnovabile dei Paesi africani affacciati sul Mediterraneo. Quanto dovremmo spendere per rendere la rete all’altezza di questa sfida? Anche se il contesto è diverso, ci viene in aiuto l’esempio elvetico che nella pianificazione dell’integrazione con le rinnovabili aveva previsto di investire fino al 2050 quasi 50 miliardi. Ma rifatti i calcoli, Berna si è accorta che per giungere alle emissioni zero dovrebbe impegnare 80 miliardi, con un incremento delle tariffe del 63 per cento.

L’AUTONOMIA

C’è poi un tema ulteriore finora sottovalutato, ed è la proposta dell’autonomia differenziata di una parte delle Regioni che porterebbe con sé il rischio di uno spezzatino di 20 sistemi diversi nelle pianificazioni e nelle procedure. Di fatto, si verificherebbe uno squilibrio del sistema energetico che riguarda non solo la fornitura al cliente ma anche la sicurezza nazionale. Un tale impasse è già capitato con i veti alle estrazioni di gas naturale, cosa che ha prodotto un referendum promosso proprio dalle Regioni. Sicché la riforma federale del 2001 (art. 117 terzo comma), che attribuisce in campo energetico alle Regioni la potestà legislativa nella produzione, trasporto e distribuzione nazionale, da esercitarsi entro i principi fondamentali della legislazione dello Stato, è diventata materia concorrente con il corollario di molti contenziosi Stato-Regione. Un esempio recente di come il sistema possa disarticolarsi è l’accordo concluso durante il governo Conte I, per il trasferimento alle Regioni degli impianti delle grandi concessioni idroelettriche. Infine, parlando di “fare sistema” e di sicurezza energetica, va ricordato che è uno dei presupposti dell’esistenza stessa dell’Ue (articolo 194 del Trattato) e se l’Italia vuole davvero diventare l’hub energetico dell’Unione la strada è tracciata.

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