Reshoring in manovra, tutta Europa partecipa: Francia e Italia prime nei rientri delle aziende

Reshoring in manovra, tutta Europa partecipa: Francia e Italia prime nei rientri delle aziende
di Giusy Franzese
Mercoledì 31 Marzo 2021, 15:11 - Ultimo agg. 12 Maggio, 15:19
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É una delle lezioni del Covid: la globalizzazione ha sicuramente i suoi vantaggi ma può portare anche guai. Non solo il virus che, viaggiando tra un continente e un altro, in men che non si dica ha contagiato l’intero pianeta. Ma anche problemi ai sistemi produttivi che, soprattutto per i settori oggetto negli ultimi decenni di massicce delocalizzazioni, si sono scoperti particolarmente fragili, perché troppo legati ad eventi imprevedibili come una pandemia appunto, oppure perché dipendenti da equilibri geopolitici che possono cambiare anche relativamente in fretta. E così nelle politiche industriali dei vari Paesi tornano prepotentemente riflessioni sulla necessità dell’autosufficienza, almeno per i settori industriali strategici. In modo da evitare - parafrasando la famosa frase di Edward Lorenz - che il battito d’ali di una farfalla cinese crei un tornado da quest’altra parte del mondo. Difesa, sicurezza, materie prime: finora erano questi i settori coinvolti nella cosiddetta «autonomia strategica». Ora l’Ue sta allargando il ventaglio inserendo le catene del valore della transizione ecologica e la produzione di vaccini. Ne ha parlato anche il premier Mario Draghi al Senato: «Dobbiamo costruire una filiera che non sia vulnerabile rispetto agli shock e alle decisioni che vengono dall’esterno». In questo quadro ci si interroga anche come innestare la retromarcia e favorire il reshoring industriale, ovvero il ritorno in patria di aziende a suo tempo “fuggite” alla ricerca di costi del lavoro inferiori, minori lacci burocratici e tassazioni più leggere. Non è un processo facile. Un dato per tutti: negli ultimi 20 anni a livello mondiale sono stati registrati circa 1.430 casi di reshoring. Una media di 70 casi all’anno. Non proprio un flusso imponente. Comunque in questa tendenza l’Europa è in prima fila con il 58% dei casi di reshoring, seguita dagli Stati Uniti (32%) e dal Giappone e Taiwan (8,5%). Nell’ambito Ue il maggior numero di ritorni in patria si è avuto in Francia (151 aziende) e in Italia (143). I maggiori ripensamenti ci sono stati in Cina, che ha perso 682 attività manifatturiere.

LE CATENE SPEZZATE

A febbraio dello scorso anno, i grandi gruppi manifatturieri e tecnologici americani ed europei, si sono ritrovati a secco di componenti essenziali che da anni ormai producevano in Cina. Fiat Chrysler, Gm, Suzuki, Audi, Volkswagen, e tutti le altre grandi case automobilistiche sono state costrette a fermare temporaneamente le linee di produzione in tutto il mondo.

La scena si è ripetuta identica per le multinazionali dell’elettronica e dell’hitech, a partire da Apple che, già alle prese con la guerra commerciale tra Pechino e Washington, ha poi deciso di spostare la produzioni di alcuni prodotti dalla Cina al Vietnam e all’India così da spalmare i rischi e ridurre le dipendenze da un singolo Paese. E poi le mascherine. Lo ricordiamo tutti: il Covid mieteva vittime, gli esperti consigliavano di non uscire senza mascherine, ma trovarle era impossibile. Le produceva solo la Cina e se le teneva strette. Poi la storia si è ripetuta con i ventilatori. E ancora con le bombole di ossigeno. E ora con i vaccini. Per ovviare l’Europa ha in programma 55 nuovi impianti di produzione dei vaccini, almeno 4 localizzati in Italia. Saranno operativi probabilmente in autunno.

IL “LIFE SCIENCE”

Nel farmaceutico in realtà l’Italia sta messa bene. Come fatturato siamo primi in Europa al pari della Germania (32,2 miliardi l’Italia, 32,9 la Germania) e abbiamo anche una serie di aziende, localizzate soprattutto in Lombardia, che producono principi attivi indispensabili per i farmaci. Non basta, però. I principali produttori di queste molecole sono localizzati soprattutto in Cina e India. L’Europa è fortemente dipendente (per il 90%). Importiamo anche quasi il 40% dei farmaci finiti. Nei primi periodi del Covid anche in Italia abbiamo avuto problemi di approvvigionamento delle molecole per alcune farmaci antinfiammatori, antidiabetici, cardiovascolari e persino per gli anestetici. C’è un progetto - guidato da Alisei, il cluster tecnologico nazionale Scienze della vita, in collaborazione con le principali associazioni della filiera (Farmindustria, Egualia, Federchimica-Aschinfarm) - che mira a potenziare la produzione in Italia dei principi attivi, anche attraverso il reshoring di alcune aziende. Su 84 impianti previsti (5 nuove fabbriche, 43 nuove linee, 36 progetti di espansione o adeguamento), una ventina sono di reshoring. Le imprese coinvolte sono pronte a investire 1,5 miliardi di euro, ma chiedono il supporto dello Stato con l’inserimento del progetto nel Recovery Plan e la garanzia di rapidità delle procedure autorizzative. Complessivamente si potrebbero creare 11 mila posti di lavoro in due anni. Di reshoring (e di aiuti fiscali) stanno ragionando anche in Confindustria Dispositivi medici: negli anni le aziende del settore hanno delocalizzato la produzione per contenere i costi. Ora importiamo attrezzature mediche per un valore pari a 8,1 miliardi di euro, contro un export che vale 5,7 miliardi. Nonostante il comparto sia costituito da 4.323 imprese (di cui 2.354 di produzione, il resto sono servizi e distribuzione) l’Italia soffre di attrezzature obsolete. D’altronde la spesa pubblica in dispositivi medici nel 2019 ha subìto un taglio dello 0,9% fermandosi a 7,79 miliardi di euro. Appena 102 euro a cittadino.

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