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Cesare Romiti, il manager di ferro che da Torino aiutò a fermare gli anni di piombo

Il manager di ferro che da Torino aiutò a fermare gli anni di piombo
Il manager di ferro che da Torino aiutò a fermare gli anni di piombo
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 19 Agosto 2020, 07:28 - Ultimo agg. : 10:42
5 Minuti di Lettura

Molti lo ricordano per la Marcia dei quarantamila, quando nell'ottobre del 1980 operai e impiegati della Fiat lo seguirono nelle vie di Torino per chiedere la fine dell'occupazione delle fabbriche e il ritorno al lavoro, dando così inizio a una nuova fase delle relazioni industriali che contribuirà a cambiare il volto del Paese. Ma l'immagine che meglio lo dipinge, agli occhi di chi lo ha incrociato professionalmente per almeno trent'anni, è un episodio minore, che però rivela molto della sua personalità: al funerale di Gianni Agnelli restò in piedi e immobile per tutta la durata della cerimonia, unica figura a stagliarsi nella navata affollata. All'uscita dal Duomo i cronisti chiesero spiegazioni, e lui: «Era una promessa fatta all'Avvocato. La ragione? Resta tra di noi». E quando mesi dopo provammo ad approfondire, con un sorriso ci accompagnò alla porta con un «era giusto così».

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Figlio di un impiegato delle Poste, laurea in economia e commercio, nel 1968 quale direttore generale della Snia Viscosa entra in rapporti con Enrico Cuccia e dopo un passaggio alla guida prima dell'Iri e poi dell'Alitalia, consigliato dal patron di Mediobanca approda alla Fiat. Era il 1974, vigilia della stagione del terrorismo che proprio a Torino avrà il suo epicentro con gli attacchi, le gambizzazioni, gli omicidi dei dirigenti dell'azienda. Ecco come egli sintetizza quegli anni nel libro-intervista firmato da Giampaolo Pansa nell'88: «Nei reparti c'erano riffe, mercatini, addirittura prostituzione. E c'erano in continuazione cortei violenti, capi aggrediti e presi a bullonate».

Una rappresentazione vera sebbene parziale, che non restituisce la complessità di quegli anni; ma una sintesi che rispecchia il carattere dell'uomo: lui era pubblicamente contro quel mondo, oggettivamente dominato da un eccessivo potere del sindacato in azienda, che da quel momento combatterà con tutti i mezzi a disposizione. Tanto che per gli operai di Mirafiori diventò lo sgiafelaleon, lo schiaffeggia leoni. E quando di recente gli verrà chiesto se ha qualcosa da rimproverarsi, non parlerà della fabbrica o della grande avventura in Fiat, ma con voce quasi commossa si limiterà a dire: «Ho lavorato tanto ma non ho mai conosciuto i miei figli e i miei nipoti».
 


Grintoso, tenace, a tratti brutale, indubbiamente di grande intelligenza, negli anni alla guida della casa torinese la sua ambizione più grande era diventare il nuovo Valletta, il manager che aveva fatto grande la Fiat nel dopoguerra. Ma era anche passionale, estroverso, conscio del ruolo che ricopriva all'interno del sistema. Nessun timore reverenziale verso la politica, capace di mettere in imbarazzo figure come Bettino Craxi e Ciriaco De Mita da lui accusati di «rigurgiti anticapitalisti». Ma capace anche di gesti galanti e grande frequentatore dei salotti romani: il suo modello di vita privata era certamente Gianni Agnelli, con il quale peraltro ebbe più confronti sulla conduzione del gruppo e soprattutto sullo scopo societario, con una certa predilezione per una Fiat finanza-centrica; fino al punto da prevalere nel braccio di ferro con l'altro amministratore delegato, Vittorio Ghidella, che invece puntava a mantenere la barra della Fiat nel solco dell'auto.

Anche i rapporti con Umberto Agnelli non furono mai pacifici, ma d'altro canto per lunghi anni erano i risultati aziendali a parlare per lui, garantendogli un potere che mediava solo con il presidente Agnelli, di cui aveva grande stima pur tenendo le dovute distanze: i due si davano del lei anche in privato. Celebre l'episodio del 1992, quando Agnelli annunciò che di lì a un anno avrebbe ceduto il suo ruolo al fratello Umberto. Poche ore dopo Romiti annunciò a sua volta che non sarebbe rimasto un minuto in più dell'Avvocato: «Siamo una coppia, insieme abbiamo lavorato, insieme ce ne andiamo». Solo l'intervento di Cuccia impedì che il doppio addio si concretizzasse, peraltro in un momento di grande bisogno di liquidità della società. Il divorzio avviene di lì a tre anni, ma con Romiti che assume la carica di presidente fino al 1998: il secondo non appartenente alla famiglia Agnelli.

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Dopo l'uscita dalla Fiat e il rifiuto di due offerte professionali (una dalla Zanussi e una da Silvio Berlusconi) diventa imprenditore in proprio e guida la finanziaria Gemina (della quale aveva ricevuto una quota come liquidazione dalla Fiat) che allora controllava il gruppo Rcs-Corsera, di cui Romiti era stato presidente: un'avventura di breve durata anche per la cattiva gestione della casa editrice.
Di indubbia lungimiranza sulle evoluzioni del commercio globale, nel 2003 costituisce la Fondazione Italia-Cina, radunando attorno a sé decine di personalità d'impresa interessate al mercato cinese: non pochi lo ringrazieranno. Tanto ruvido nei rapporti professionali, quanto affascinato dal bello del Paese, dal 2006 al 2013 ha presieduto l'Accademia di Belle Arti di Roma.

Che cosa resta del capitalismo di Romiti? Qui le scuole si dividono. C'è chi sostiene che in lui prevalse un'idea di capitalismo fortemente intrecciato con il potere politico e per questo in grado di condizionarne le scelte a vantaggio dell'impresa; e c'è chi invece privilegia il suo desiderio del fare sistema fondendo le finalità dell'industria privata con gli scopi dell'azione di governo. In ogni caso, nella sua visione l'impresa doveva conquistare dimensioni, fatturato, numero di addetti, elaborare strategie e soprattutto reggere l'urto della concorrenza globale. Ma guai ad accusalo di aver forgiato un'azienda troppo legata ai palazzi della politica: «Questa lettura non l'accetto», aveva risposto secco ancora di recente.
Un suo grande difetto? Forse troppo ha creduto nelle proprietà taumaturgiche della finanza, e non sempre con ragione.
 

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© RIPRODUZIONE RISERVATA
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