Napoli, i debiti e la prova dei fatti

di ​Oscar Giannino
Sabato 16 Dicembre 2017, 09:03
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No, non è proprio il caso che il sindaco di Napoli canti vittoria per l'approvazione dell'emendamento spalma-debito per i Comuni in pre-disssesto, tra i quali il primo è Napoli. Certo, l'orizzonte per la riduzione del deficit e del debito comunale si allunga, ma la morsa esercitata dalla Corte dei Conti non si ammorbidisce affatto, anzi. E tanto meno l'orizzonte del risanamento è stato spostato in avanti fino a 30 anni, come la giunta de Magistris aveva chiesto.

Ricostruiamo come sono andate le cose, partendo da cinque anni fa. Fu infatti allora, che venne introdotta la disciplina del cosiddetto pre-dissesto. Dopo la crisi dello spread del 2011 che portò alla fine di Berlusconi e all'avvento del governo Monti, iniziava la stagione della energica riduzione dei trasferimenti dallo Stato centrale alle Autonomie locali, per contenere il deficit nazionale. Dal 2010 al 2015 lo Stato complessivamente riduce di circa 25 miliardi di euro il suo deficit nominale, e di questo calo esattamente la metà è a carico dei Comuni, attraverso un taglio dei trasferimenti loro riservati. In quel nuovo quadro, viene al pettine la richiesta dell'Anci: i tagli rischiano di aumentare vertiginosamente il numero dei Comuni avviati al dissesto. Oltretutto perché si sommano alla riforma voluta meritoriamente da Padoa-Schioppa - che finalmente omologa in chiave nazionale i criteri di bilancio delle Autonomie locali, facendo finalmente piazza pulita di un'ingente mole di crediti pluriennali ormai fittizi vantati all'attivo patrimoniale, che vanno invece riclassificati e ridotti solo a quelli davvero esigibili: col risultato contabile di ridurre i residui attivi, e di far emergere più deficit corrente nei bilanci dei Comuni.

I sindaci e i partiti non hanno mai molto amato la precedente disciplina, che prevedeva il dissesto volontario, dichiarato cioè da sindaco e giunta a fronte di un bilancio ormai avviato allo squilibrio strutturale. Sbagliando: il dissesto volontario consente al sindaco e alla giunta di restare in carica con un conto patrimoniale ripulito, visto che il debito viene concentrato in un veicolo al cui recupero pensa un commissario (come capitò con il maxi-aiuto a Roma stabilito nel 2008, allora per 18 miliardi, ora scesi a 12) .

Certo, a quel punto sindaco e giunta restano per anni con le sovraliquote locali al massimo e con pesanti vincoli di spesa, ma almeno l'amministrazione fa punto e a capo, liberandosi di molti oneri finanziari sul debito, e non trascinando più passività e disastri delle municipalizzate. Oltretutto, se dichiarato a inizio mandato, il dissesto volontario significa rendere anche chiaro agli occhi degli elettori di chi sia la responsabilità della precedente malagestio. Ma resta il fatto che alla politica tale strumento non è mai piaciuto. Esponendosi dunque all'alternativa del dissesto coatto, dichiarato una volta che la Corte dei Conti nelle sue sezioni regionali di controllo abbia constatato in più occasioni l'inadeguatezza dei piani di rientro del Comune, fino al punto da configurare un disseto grave e reiterato: questa seconda via comporta invece che sindaco e giunta vadano a casa, e subentri il commissariamento dell'intera amministrazione.

Di qui nacque nel 2012 la terza via, la riforma che introduce il pre-dissesto, facendo restare i sindaci in carica e consentendo un orizzonte decennale di rientro delle passività. Sempre sotto l'occhiuto controllo della Corte dei Conti, quanto a credibilità e adeguatezza dei piani di rientro da presentare per centrare l'obiettivo del riequilibrio strutturale. Ma con molto più tempo a disposizione.

Anche nel 2012, il più grande Comune d'Italia per il quale scattò quella riforma era, guarda caso, Napoli. E sono passati cinque anni da allora, ma con la giunta de Magistris le cose, invece di migliorare, sono peggiorate. Lo ha certificato, amari numeri alla mano, la Corte dei Conti, che ha bocciato i piani di rientro presentati dall'amministrazione in carica in questi anni. E il 16 ottobre scorso è scattata la tagliola. La Corte dei Conti ancora una volta ha implacabilmente respinto l'aggiornamento del piano della giunta de Magistris, giudicando inadeguati gli impegni a migliorare la capacità di riscossione delle entrate proprie. Il Comune riscuote meno del 50% della Tari e dei fitti dovutigli, meno del 20% delle multe. Di oltre 120 milioni di cessioni immobiliari dichiarate sulla carta, ne risultava effettuato solo 1 milione. Di 650 milioni di debiti fuori bilancio, il Comune ne aveva riconosciuti solo 250. Inoltre aveva contabilizzato impropriamente le mere anticipazioni di cassa dallo Stato come entrate a copertura di spesa strutturale aggiuntiva. Risultato: il debito, che in 20 anni si era accumulato fino a superare gli 800 milioni, tra 2015 e 2016 era salito di altri 1,2 miliardi. E ora sta complessivamente a 2,4 miliardi.

Di qui la conclusione della Corte: o in 60 giorni, cioè entro oggi, de Magistris avesse riscritto energicamente il suo piano, oppure alla grave constatazione di inadeguatezza del rientro si sarebbe aggiunta la sua reiterazione. E a quel punto sarebbe stata automatica la richiesta di dissesto coatto dell'amministrazione napoletana: cioè, sindaco a casa e città commissariata. È partita allora la trattativa serrata che Napoli ha condotto con il governo, allineandosi alla precedente proposta dell'Anci: estendere il pre-dissesto da 10 a 30 anni. Su cosa si fondava tale richiesta, dietro la quale si sono allineate molte amministrazioni guidate dal Pd, a cominciare da Catania? Sul fatto che, nella riforma del 2012 l'effetto spalma-perdite era stato effettivamente concesso ai Comuni proprio in 30 anni. Ma su questa richiesta palazzo Chigi, a cominciare dall'unità economica guidata dal professor Luigi Marattin, consigliere di Gentiloni oggi come di Renzi in precedenza, ha tenuto duro. E ha fatto benissimo. Un conto è prevedere un orizzonte trentennale a seguito di una riforma sistemica dei criteri di bilancio. Altro conto è premiare oltremodo Comuni in clamoroso difetto. 

Da questo braccio di ferro è nata la nuova norma: che non dà affatto più anni di recupero a tutti i Comuni. Quelli che hanno passività fino al 20% del bilancio vedono scendere l'orizzonte temporale del pre-dissesto dai 10 anni attuali a soli 4 anni. Chi sta tra il 20% e il 60%, dovrà rientrare nei 10 anni attuali. Chi sta sopra il 60% e fino al 100% ha il beneficio aggiuntivo di 5 anni, e arriva a 15. E chi, come Napoli, sta oltre il 100%, può infine spalmare il rientro del debito fino a 20 anni. 

Per Napoli è una grande boccata di ossigeno finanziario: significa veder scendere la rata di ammortamento annuale, prima pari ad almeno 180 milioni, a meno della metà. Ma attenzione, c'è un altro particolare essenziale su cui de Magistris non ha ottenuto quanto voleva, oltre ad aver mancato l'obiettivo dei 30 anni al posto di 10. La giunta napoletana voleva anche che, in presenza di questa dilazione, si azzerassero i cartellini gialli intanto già emessi dalla Corte dei Conti. Ma anche su questo palazzo Chigi ha tenuto duro. E ha fatto arcibene. Troppo facile non rispettare la legge per anni, e poi vedersene avvantaggiati. Quindi il cartellino giallo su Napoli resta. E se ora de Magistris presenta un altro piano-beffa, la Corte dei Conti potrà e dovrà confermare il giudizio di grave e reiterata inadeguatezza. Dunque il sindaco non ha affatto evitato né il rischio concreto di andare a casa, né ha evitato a Napoli quello di trovarsi commissariata. Deve cambiare rotta, e farlo per la prima volta per davvero. O piuttosto andare a casa. Per la prima volta in sette anni la sua giunta è chiamata a una prova sui fatti e non sulle parole. Staremo a vedere che cosa accadrà.
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