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Covid, 20mila piccole imprese del Sud sono a un passo dalla chiusura

di Nando Santonastaso
Articolo riservato agli abbonati
Sabato 15 Maggio 2021, 00:00 - Ultimo agg. : 08:00
4 Minuti di Lettura

Forse è improprio definirle tutte «zombie», imprese cioè poco produttive che rimangono sul mercato solo grazie agli interventi pubblici. Ma sembra probabile che questa tipologia sia ben rappresentata tra le 73.200 aziende di piccole e medie dimensioni (fino a 499 dipendenti, cioè) che rischiano l’espulsione dal mercato per via della pandemia. Il dato emerge dalla ricerca Svimez-Centro studi Tagliacarne di Unioncamere diffusa ieri. Circa ventimila sono in pericolo nel Mezzogiorno (come era già emerso da un recente approfondimento del Mattino sull’indagine condotta da Mediocredito Centrale e Svimez in base agli aiuti garantiti dallo Stato), altre 17.500 nelle regioni del Centro. E proprio il fatto che più della metà delle imprese traballanti appartenga a queste due macroaree rafforza la tesi secondo cui la crisi irrisolta del sistema sociale ed economico del Sud si stia propagando sempre più ai territori limitrofi. «Dall’indagine emerge, oltre a una differenziazione marcata tra Nord Est e Nord Ovest - commenta il Direttore della Svimez, Luca Bianchi - anche la fragilità di un Centro che si schiaccia sempre più sui valori delle regioni del Sud. I diversi impatti settoriali, con la particolare fragilità di alcuni comparti dei servizi, impongono, dopo la prima fase di ristori per tutti, una nuova fase di interventi di salvaguardia specifica dei settori in maggiore difficoltà, accompagnabili con specifiche iniziative per aumentare la digitalizzazione, l’innovazione e la capacità di export delle imprese del Centro-Sud».

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Le 73.200 pmi della ricerca, condotta su un campione di 4mila imprese manifatturiere, rappresentano il 15% del totale nazionale. Un cluster significativo, insomma, ma non solo a livello statistico: dall’analisi dei datti emerge infatti che ad essere finite sull’orlo del burrone sono più le imprese dei servizi che quelle manifatturiere, con una quota quasi doppia: 17% contro 9% la media nazionale ma nel Mezzogiorno il rapporto è 19% contro 11%. «Sono quelle che hanno forti difficoltà a “resistere” alla selezione operata dal Covid come risultato di una fragilità strutturale dovuta ad assenza di innovazione (di prodotto, processo, organizzativa, marketing), di digitalizzazione e di export, e di una previsione di performance economica negativa nel 2021».

La pandemia, insomma, come causa aggiuntiva e determinante, una sorta di colpo finale (o quasi) ad esperienze imprenditoriali nate o diventate fragile, come detto, protette in molti casi negli anni da sussidi nazionali ed europei e ora a corto degli uni e degli altri. Per dare un’idea della portata del rischio, basta dare un’occhiata all’accurata analisi condotta a marzo per la Lavoce.info dagli economisti Guido Romano e Fabiano Schivardi incrociando i dati del Cerved Group Scorre con quelli del Fondo centrale di garanzia. Delle 500mila imprese (comprese le più grandi) considerate sicure prima della pandemia, 308mila lo rimarranno anche dopo: le altre 182 mila sono considerate vulnerabili e di esse le “zombie”, a rischio cioè già prima del Covid, sarebbero 81mila, con 25mila attese al fallimento nonostante l’utilizzo dei prestiti garantiti dallo Stato. 

Numeri angoscianti ma in perfetta coincidenza con quelli resi noti ieri da Svimez e Tagliacarne che soprattutto al Sud (ma ora anche al Centro) fanno da contraltare purtroppo ai primi timidi ma comunque continui segnali di risveglio del sistema produttivo, dal turismo al manifatturiero. Le 72.300 imprese in pericolo, racconta la ricerca, sono per il 48% fragili (non innovative, non digitalizzate e non esportatrici) ma al Sud si sale al 55%, il top delle macroaree. Inoltre, i deficit di innovazione e digitalizzazione nei servizi «fanno sì che le imprese fragili superino il 50% a livello nazionale, sfiorando il 60% al Sud. Nel comparto manifatturiero sono fragili in Italia il 31% delle aziende, che salgono al 39% nel Mezzogiorno».

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Inevitabile perciò il pessimismo sulle prospettive. Il 30% delle imprese dei servizi e il 22% di quelle manifatturiere italiane dichiarano aspettative di fatturato in calo anche nel 2021, un chiaro segnale che la crisi non è affatto finita. Al Sud in particolare è il manifatturiero a confermare le maggiori difficoltà di ripresa (il 27% delle imprese con previsioni di performance negative, contro il 19% del Nord-Est) e, sia pur meno accentuate, del Centro (25%). Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro Studi delle Camere di commercio Tagliacarne, avverte infatti che «è possibile che le imprese del Mezzogiorno possano conseguire quest’anno risultati ancora più negativi rispetto alle loro aspettative, perché meno consapevoli dei propri ritardi accumulati sui temi dell’innovazione e del digitale».

Il Pnrr sempre più ultima spiaggia, dunque? Probabilmente sì. E la speranza che si riparta al Sud dall’economia del mare e dalla logistica, indicata da Confindustria tra i tre asset strategici per il rilancio del Paese, ha trovato conferma nell’incontro tra la ministra del Sud Mara Carfagna e il vicepresidente degli industriali di Napoli, Francesco Tavassi, delegato al settore. In Campania tra i porti di Napoli e Salerno e gli interporti di Nola e Marcianise sarà investito il 25% delle risorse destinate alla Zes, pari a 136 milioni complessivi, la quota più alta dei 630 milioni destinati a tutte le Zes meridionali. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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