Alimentare e farmaceutico le garanzie del Mezzogiorno

Alimentare e farmaceutico le garanzie del Mezzogiorno
di Nando Santonastaso
Lunedì 7 Giugno 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Osservatori, economisti e Centri studi sono pressoché tutti d’accordo: la ripresa c’è ma non sarà uguale per intensità nel 2021 in ogni area del Paese. E anche in quelle, come al Nord, dove si registreranno tassi di crescita più consistenti, non tutti i territori marceranno alla stessa velocità. Nel Mezzogiorno in particolare le debolezze pre-Covid appesantiranno e non poco la ripartenza, confermando in sostanza il divario. 

In estrema sintesi sembra questo lo scenario che, al netto del Pnrr i cui primi reali effetti si vedranno nel 2022, attende il Paese nei prossimi mesi. Prevedibile e annunciato dopo il tonfo 2020, il rimbalzo dell’economia italiana previsto dall’Istat sarà superiore alle previsioni grazie soprattutto all’impennata della campagna di vaccinazione: ma la stabilità della ripartenza, garantita dalla forte ripresa degli scambi commerciali in quasi tutto il mondo, dipenderà ancora da incognite importanti, dalle conseguenze della guerra delle materie prime al ruolo dell’export, dal recupero dei circa 850mila posti di lavoro che mancano all’appello al rilancio della domanda interna e dunque dei consumi.

Ecco una bozza, approssimata, di ciò che potrebbe accadere fino alla fine dell’anno.

Sarà una ripresa trainata dal manifatturiero e di conseguenza targata soprattutto Nord. Per Unioncamere saranno in particolare i distretti meccanici della Lombardia a recuperare almeno in gran parte volumi e fatturati pre-pandemia. Ma non per tutti sarà così: in Piemonte, ad esempio, una delle regioni più in difficoltà già prima dell’emergenza Covid, la manifattura crescerà della metà rispetto alla media nazionale, con il tessile ancora indietro e il legno in leggera risalita, e soprattutto con un numero di nuovi occupati ampiamente inferiore alle altre regioni del Nord (5mila circa nei primi 4 mesi dell’anno contro i 19mila della Lombardia, i 16mila dell’Emilia, i 14mila del Veneto).  

Agroalimentare e farmaceutico tengono il passo, spiega Luca Bianchi, Direttore generale della Svimez. Forti invece le incognite sull’automotive che tra produzione di autoveicoli (Melfi, Pomigliano, Chieti) e componentistica è una delle voci più importanti del sistema economico Sud: «Se l’industria meridionale non recupererà i tassi di crescita del 2008, mai più ritrovati, la ripresa sarà complicatissima» dice l’economista già al lavoro sulle anticipazioni del Rapporto 2021 previste per fine luglio. 

«Un po’ di rimbalzo sulla domanda interna per effetto della ripartenza del turismo ci sarà ma è la domanda di beni durevoli ad essere ancora molto incerta», aggiunge. L’automotive, appunto: il tonfo delle immatricolazioni di maggio, la Cig per 1500 dei 7mila dipendenti Fca di Melfi, i problemi di approvvigionamento dei microchip disegnano una prospettiva produttiva ed occupazionale molto delicata. «E le incognite sul futuro dell’ex Ilva o di tante altre medie industrie del Sud, da Whirlpool all’ex Fiat di Termini Imerese, non sono segnali confortanti, anzi. Io temo la divaricazione della produttività tra Nord e Sud e di conseguenza un ulteriore allargamento del divario. Ecco perché forti investimenti industriali sono indispensabili già adesso», insiste Bianchi.

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È la chiave di volta perché tutte le previsioni indicano che la ripresa sarà trainata dalle esportazioni. Ma non sarà affatto una passeggiata anche per i settori più forti del made in Italy. L’agroalimentare, ad esempio: dal recentissimo forum su «La roadmap del futuro per il Food&Beverage», organizzato da Ambrosetti, è emerso tra l’altro che «nonostante il Bel Paese nel decennio 2010-2020 sia cresciuto a valore più degli altri, segnando un incremento medio annuale del 5,2%, l’incidenza delle vendite fuori confine del settore agroalimentare ha inciso nel 2020 solo per l’11% sul dato totale, contro il 20% della Spagna e il 15% della Francia». Colpisce in particolare il fatto che «un mercato strategico come quello cinese non sia ancora tra i primi dieci destinatari di prodotti agroalimentari italiani, al contrario di ciò che succede per altri Paesi». È il nodo dell’Italian Sounding (stimato a un valore di 100 miliardi di euro) a restare irrisolto: da un lato un Paese che è di gran lunga la prima destinazione enogastronomica al mondo, dall’altro i limiti alle vendite di prodotti nostrani all’estero copiati e replicati nell’indifferenza internazionale più o meno generale.  

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