Gas russo, cosa succede in caso di stop? Pronti accordi con altri Paesi produttori (ma anche i razionamenti)

Algeria, Azerbaijan, Egitto, Congo, Mozambico: sono già pronti gli accordi per sostituire Mosca. Ma anche tagli e razionamenti

Gas russo, cosa succede in caso di stop? Pronti accordi con altri Paesi produttori (ma anche i razionamenti)
Gas russo, cosa succede in caso di stop? Pronti accordi con altri Paesi produttori (ma anche i razionamenti)
di Andrea Bassi
Lunedì 4 Aprile 2022, 22:04 - Ultimo agg. 7 Aprile, 11:23
6 Minuti di Lettura

Le nuove rotte della diplomazia sono quelle del gas. Il metano, che per anni era stato trattato alla stregua dello stagno, ha ricominciato a brillare. Come l’oro. Oro blu, come l’acqua, ma diverso. Nella sua ultima tappa del giro dei Paesi produttori, il ministro Luigi Di Maio si è fermato a Baku, capitale dell’Azerbaijan, che attraverso le condotte del Tanap e poi del Tap, porta il gas del giacimento di Shah Deniz fino a Melendugno in Puglia. Lo scorso anno sono entrati dal tubo del Salento 7,2 miliardi di metri cubi di gas azero. Di Maio ha strappato la promessa di aggiungerne altri 1,5-2 miliardi. Ogni molecola di metano in più che il governo riesce a strappare ai fornitori è un passo verso l’indipendenza dai quasi 30 miliardi di metri cubi che ogni anno arrivano dai giacimenti siberiani passando per l’Ucraina attraverso il gasdotto Tag, e che entrano in Italia dal Tarvisio. 

Gas russo, l'Ue: «Embargo è una possibilità», no di Berlino

PASSAGGIO A NORD EST
Staccare il tubo dalla Russia però non è semplice. Sostituire 30 miliardi di metri cubi in pochi mesi è una missione difficilissima. Quasi impossibile se poi ci sono da riempire gli stoccaggi in tempi brevi con altri 12 miliardi di metri cubi. Soprattutto se il gas è diventato l’oggetto del desiderio di molti Stati. Roma però si è mossa prima. E si è mossa bene. Grazie soprattutto all’attivismo dell’Eni e del suo amministratore delegato Claudio Descalzi, che ha fatto pesare i vecchi legami energetici soprattutto con i Paesi africani. L’Algeria è pronta a fornire quasi da subito 9 miliardi di metri di gas in più. Arriveranno dall’ingresso di Mazara del Vallo, attraverso il gasdotto Transmed, dal quale già oggi passano 21 miliardi di metri cubi l’anno.

Un altro paio di miliardi di metri cubi potrebbero arrivare dalla Libia attraverso il Greenstream, il tubo che collega i giacimenti di Wafa e Bahr Essalam. Poi c’è il gas liquefatto. Il Gnl, quello che arriva via nave ma che poi bisogna riportare allo stato gassoso per immetterlo nella rete italiana. Che, ad oggi, dispone di soli tre impianti dedicati a questo scopo: uno a Panigaglia (La Spezia), uno a Rovigo e l’ultimo a Livorno. 

LA ROTTA DELLE NAVI
Tutti insieme hanno una capacità massima di rigassificazione di 16 miliardi di metri cubi. Quella al momento utilizzata è di circa 10 miliardi. Attraverso questi punti, insomma, potrebbero entrare in Italia altri 6 miliardi di metri cubi di gas. Snam ha avuto mandato dal governo di acquistare due navi in grado di trasformare il gas liquido. Se dovesse riuscire in questo compito, si aggiungerebbero altri 10 miliardi di metri cubi di capacità di trasformazione. Ma per ora di navi, Snam ne avrebbe trovata una sola. E i tempi per renderla operativa non sono brevi. A sua volta Enel ha deciso di riesumare il progetto di Porto Empedocle. Pure qui, però, il tempo rema contro. Ma la domanda è anche un’altra. Da dove arriverebbe tutto questo gas liquefatto? Il presidente americano, Joe Biden, ha promesso che gli Usa forniranno l’Europa di 15 miliardi di metri cubi di gas scisto, quello prodotto Oltreoceano frantumando le rocce con acqua ad alta pressione. Ma 15 miliardi sono pochi, soprattutto se vanno divisi con gli altri Paesi del Vecchio Continente, a partire dall’assetata Germania. Meglio guardare altrove. Come ha già fatto l’Italia. L’Eni dirotterà verso il Paese quantità di Gnl che già sono nelle sue disponibilità. Dai giacimenti di Damietta in Egitto e dal Qatar arriveranno circa 3 miliardi di metri cubi di gas liquefatto nel 2022 e circa altri 5 nel 2023. Dal progetto in Congo del Cane a sei zampe, potranno arrivare a regime altri 5 miliardi di metri cubi, nell’immediato forse uno o due miliardi. Qualcosa, un paio di miliardi forse, arriveranno da Angola e Mozambico. Poi c’è la produzione interna. Quella del ricchissimo mare Adriatico, che le politiche “No Triv” italiane hanno completamente lasciato allo sfruttamento della Croazia. I vecchi giacimenti, quelli già esistenti, daranno un contributo di un paio di miliardi di metri cubi. 

IL PIANO B
Basterà tutto questo a evitare che il prossimo inverno siano necessarie le misure previste dallo stato di emergenza? Probabilmente sarà difficile fare a meno dei razionamenti. Lo si intuisce anche dalle mosse del governo. L’Italia ha dichiarato lo stato di «pre-allerta» già da febbraio. Ma di fatto è come se avesse dichiarato già l’emergenza. Il decreto approvato dal governo assegna la possibilità al ministero dello Sviluppo economico di attuare le misure dell’emergenza anche senza dichiararne lo stato.
Così sono state riattivate le centrali a carbone, una misura che da sola potrebbe far risparmiare 3-4 miliardi di metri cubi di gas. Eppure la “pistola” che il governo ha caricato e tiene sul tavolo prevede la possibilità, dalla sera alla mattina, di mettere in campo misure draconiane per risparmiare gas. Misure che il “Piano di emergenza del sistema italiano del gas naturale” definisce «non di mercato». 

I DIECI INTERVENTI
Si tratta di dieci interventi che chiedono la collaborazione di tutti, dagli operatori alle imprese industriali fino ai cittadini. Innanzitutto verrebbe chiesto a tutti i gestori dei “tubi” e dei rigassificatori di rendere disponibile l’intera capacità. Poi scatterebbe la limitazione dell’uso del metano per produrre energia elettrica, sostituendo il gas con carbone e olio combustibile dove possibile. Inoltre ci sarebbe una riduzione obbligatoria del prelievo di gas degli utenti industriali. Tutti, non solo quelli che per contratto possono essere “interrotti”. Il passaggio successivo sarebbe la riduzione obbligatoria delle temperature per uso civile. Giù i termostati dei termosifoni nelle case e negli uffici, insomma. Poi toccherebbe al resto delle imprese. 
L’obbligo di fornitura rimarrebbe soltanto per i clienti cosiddetti “tutelati”, ossia le famiglie e le piccole imprese. Ma anche per questi qualcosa cambierebbe. Verrebbero meno le tutele di prezzo, ossia il calcolo trimestrale fatto dall’Arera. Per ridurre i picchi, poi, si userebbe maggiormente il Gnl. Si metterebbe anche mano alle riserve strategiche. E si cercherebbe in tutti i modi di contattare con i fornitori nuovi volumi da importare via tubo. Infine, si chiederebbe aiuto ai Paesi con i quali abbiamo sottoscritto patti di solidarietà. Come quello con la Germania che da qualche settimana stiamo cercando di concludere, ma che è reso difficoltoso dal fatto che Berlino ha più necessità di gas di quanta non ne abbia Roma. 

La verità dunque è che, pur non avendo formalmente dichiarato lo stato di emergenza, il governo si muove di fatto come se lo avesse già fatto. Perché le notizie che arrivano dal campo di battaglia in Ucraina avvicinano sempre più velocemente il momento in cui sarà necessario separarsi da Mosca. E non si può arrivare impreparati all’appuntamento. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA