Imprese, la sfida del Mezzogiorno: solo chi innova se la cava

Imprese, la sfida del Mezzogiorno: solo chi innova se la cava
di Nando Santonastaso
Mercoledì 18 Agosto 2021, 08:22
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Non tutti ricordano che fino a pochi anni fa, il 2018 per la precisione, il 43,6% del valore aggiunto manifatturiero nel Mezzogiorno era generato dalle filiere delle 4A (Alimentare, Aeronautico, Automotive, Abbigliamento-Moda) e del Farmaceutico. Che il loro valore era calcolato in 12,7 miliardi, con un export pari a 20,6 miliardi di euro (il 13,5% dell'export nazionale), firmato da oltre 49mila imprese (il 33% del totale nazionale in quei settori) e oltre 217mila addetti. E ancora, che le filiere meridionali avevano un peso di rilievo anche nel commercio manifatturiero interregionale: il 45% per export ed il 48,4% per import. Essendo poi tutte filiere lunghe, che si sviluppano cioè da Nord a Sud, producevano per effetto delle interdipendenze di filiera per ogni 100 euro di investimento un effetto a cascata su tutta l'economia nazionale di 580 euro, con un moltiplicatore quindi pari a 5,8.



Torna alla memoria uno dei più importanti studi di Srm nel giorno in cui vengono diffusi i dati di un'analisi condotta dall'Istituto Tagliacarne, su dati Unioncamere, per conoscere il grado di innovazione digitale delle imprese presenti nelle 17 filiere registrate dal ministero dello Sviluppo economico e verificarne la capacità di ripartenza post pandemia. L'analisi non è articolata su macroaree e dunque non è possibile, ad esempio, sapere se come era stato segnalato nel 2018 dalla Società di studi collegata ad Intesa Sanpaolo ci sono ancora oltre 10.000 imprese (con più di dieci addetti) nel Mezzogiorno che hanno fatto investimenti in innovazione ed hanno parametri che le rendono quindi innovative. Di sicuro il Tagliacarne conferma che «le imprese che operano all'interno di filiere sono più innovative, più aperte ai mercati stranieri e più ottimiste sul futuro di quelle che lavorano in maniera isolata». Che «il 41% di queste imprese prevede di recuperare i livelli produttivi pre-Covid già entro quest'anno, contro il 36% delle altre aziende». Che questa quota «sale al 45% per le imprese in filiera che hanno investito nelle tecnologie 4.0 contro il 35% delle altre digitalizzate». E ancora, che «il 62% delle imprese che lavorano insieme ha fatto investimenti per innovare (contro il 38% delle altre) e il 22% esporta, con punte che arrivano al 30% nelle filiere 4.0 (contro il 24% delle altre digitalizzate)».

Insomma, stare nelle filiere produttive conviene alle imprese e, soprattutto, le spinge inevitabilmente all'innovazione di processo e di prodotto, strada obbligata per sopravvivere alle nuove e vecchie concorrenze di mercato. Il campione è rappresentativo: le 17 filiere contano oltre 3,8 milioni di imprese attive, pari al 75% del sistema imprenditoriale italiano, con più di 12 milioni di addetti, e 2.500 miliardi di euro di fatturato (78,9% del totale di industria e servizi). E l'effetto filiera, spiega lo studio, c'è e si vede: «La collaborazione tra imprese che hanno attività interconnesse lungo tutta la catena del valore, dalla creazione sino alla distribuzione, di un bene o servizio, si rileva quindi un importante fattore di competitività per gli imprenditori, soprattutto se abbracciano il digitale avanzato». E il segretario generale di Unioncamere, Giuseppe Tripoli, aggiunge: «Più di 3 imprese su 4 del nostro Paese operano all'interno di filiere, alcune più corte, di territorio, altre più internazionali; tante si sono modificate per gli effetti della crisi pandemica. In molte il rapporto tra le imprese non si esaurisce nel contratto di fornitura ma, come mostrano diverse analisi di Unioncamere, si arricchisce con fattori qualitativi, servizi, supporti finanziari, percorsi di certificazione, spesso indotti dalle aziende capo-filiere, normalmente medie o grandi».

Ma qual è lo stato attuale delle filiere? E i dati relativi alle potenzialità del Sud pre-Covid sono ancora validi oggi? Su entrambi i fronti prevale una robusta cautela.

La pandemia ha cambiato le prospettive di alcune filiere, a partire dall'automotive e dall'abbigliamento, per restare in particolare al Sud: la prima è alle prese con le incertezze dell'approccio all'elettrico, la seconda con un mercato che guarda già al 2022 per ripartire nel pieno senso della parola. Favorevole al contrario il trend del Farmaceutico e dell'Agroalimentare anche se, come osserva Unioncamere, dovranno comunque affrontare «il ripido percorso della doppia transizione, digitale e ambientale». Morale: si rischia di perdere parecchie aziende per strada se non arriveranno «scelte pubbliche che aiutino l'irrobustimento delle filiere e le aggregazioni tra imprese, per salvaguardare la competitività del nostro sistema».

È il tallone d'Achille del Mezzogiorno, ripartito in ritardo rispetto al Centro-Nord (o almeno a parte di esso) e con pesanti incognite sulla capacità di recuperare il gap digitale. Sarà un caso ma il dato più confortante di queste settimane in chiave Mezzogiorno sembra essere quello della filiera a lungo più penalizzata da chiusure e norme anti-contagio, quella turistico-balneare, dove l'innovazione digitale non appare ai primi posti nelle scelte imprenditoriali: ebbene, secondo l'ultimo rapporto Srm quest'anno si prevede al Sud «di recuperare circa 1,3 miliardi di valore aggiunto, solo una parte, ma comunque significativa, di quanto perso nel corso del 2020». Un recupero, certo, basato su presenze soprattutto domestiche (quest'anno risaliranno a 58,3 milioni con un recupero di oltre il 50% delle presenze del 2019) e in parte frenato dai dati non altrettanto confortanti delle città d'arte. Ma viene da chiedersi cosa diventerebbe questa filiera, spesso improvvisata o poco aggregata al suo interno, se sposasse a tutto tondo la causa del digitale e dell'innovazione. Probabilmente produrrebbe più dell'11% di Pil diretto, indiretto ed indotto, che oggi garantisce al totale Sud. E di questi tempi sarebbe tutto grasso che cola.
 

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