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Lavoro, con il Recovery Fund 750mila posti a fine 2026

di Nando Santonastaso
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 30 Aprile 2021, 23:48 - Ultimo agg. : 1 Maggio, 20:02
6 Minuti di Lettura

Se tutto andrà bene - «e sottolineo se», come cantava Mina - l’effetto del Pnrr sull’occupazione dovrebbe garantire uno spread positivo di circa 750mila unità a fine corsa, il 2026 cioè, pari al 3,2% in più rispetto al 2020. In realtà, secondo gli esperti, già entro il 2023 i nuovi posti di lavoro prodotti dalla spinta del Piano di ripresa e resilienza dovrebbero essere circa un milione ma questo basterà, più o meno, solo a recuperare quelli persi a causa della pandemia, almeno 945mila secondo il dato ufficiale Istat dello scorso febbraio. Quasi un imperativo categorico guardare al futuro nel giorno della “Festa del lavoro”, che per il secondo anno consecutivo cade in piena e irrisolta emergenza sanitaria. La risalita del Paese non sarà semplicissima (ieri proprio l’Istat ha confermato le difficoltà del primo trimestre 2021, con la crescita al 33% del tasso di disoccupazione giovanile, ad esempio e un segno negativo per il Pil dello 0,4%) ma tutti gli addetti ai lavori scommettono su un secondo semestre sprint. Sempre che, è bene ricordarlo, i tempi del piano nazionale di vaccinazione siano rispettati e non ci siano imprevisti di alcun genere. 

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Di sicuro, lo scenario mette ancora molta paura. A metà aprile, come ricordato in questi giorni dalla Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro, «ci sono ancora 1,8 milioni di occupati che non lavorano, perché interessati da sospensioni di attività o cassa integrazione e circa 1 milione tra dipendenti e autonomi è convinto di perdere il lavoro nei prossimi mesi (rispettivamente 620mila dipendenti e 400mila autonomi circa). A questo numero, si aggiungono 2,6 milioni di dipendenti che vedono a forte rischio il proprio futuro lavorativo sull’onda dello sblocco dei licenziamenti».

A tremare è la categoria meno protetta dei lavoratori, quella di bassa qualificazione che, soprattutto al Sud, si concentra nelle microimprese, fino a 9 dipendenti per intenderci, la fascia decisamente più a rischio dell’intero sistema produttivo. Si tratta del 46% degli occupati che, sempre in base al Rapporto dei Consulenti del lavoro, «considera le proprie competenze inadeguate in quanto troppo generiche (24,1%) o obsolete (22,2%). Questa ammissione di debolezza preannuncia il rischio di autoesclusione dal mercato del lavoro e il forte disagio dei profili meno qualificati, i più profondamente colpiti dalle restrizioni e dalla contrazione del reddito».

Che il Mezzogiorno, specialmente per giovani e donne, sia il più esposto ad una ripresa lenta non lo discute più nessuno. I soli posti in pericolo ai tavoli di vertenza aperti al ministero dello Sviluppo economico sono ancora circa 40mila. E i cassintegrati restano un esercito, ancorché in calo rispetto ad un anno fa. L’allarme disoccupazione lanciato dal Cerved, che ipotizza un picco del 17% quest’anno (nello scenario però peggiore), con una perdita di posti di lavoro tra 1,3 e 1,9 milioni, indica nel Mezzogiorno uno scenario potenzialmente peggiore. Nell’elenco delle province che a causa del Covid avrebbero i danni maggiori, figurano infatti ai primi posti Messina, Trapani, Vibo Valentia, Catanzaro, il Sud della Sardegna e Agrigento, tutte attrezzate peggio «anche se forti problemi ci potrebbero essere pure ad Aosta, nell’estremo Nord, e poi a Livorno, Imperia e Savona». 

E c’è un ulteriore indicatore da considerare con attenzione, ed è quello relativo alla previsione di assunzioni da parte delle aziende calcolato su base mensile dal Rapporto Excelsior di Unioncamere. I dati di aprile confermano una leggera ripresa delle “entrate” pari a livello nazionale a 305.660 previsioni ma con un 32% di profili di difficile reperimento (che è tutto un programma) e soprattutto con un saldo negativo di circa 110mila unità lavorative rispetto ad aprile 2019, termine di paragone più credibile del flop 2020. Ed è proprio il Sud, con 34.310 “entrate” in meno, l’area del Paese che sta messa peggio. A partire, non a caso, dalle microimprese, la fascia che prevede il numero maggiore di mancate assunzioni, circa 54mia in totale. Se a questi dati aggiungiamo quello di Mediocredito Centrale e Svimez che valuta in circa 20mila le imprese a rischio di ripartenza post pandemia (un terzo del totale) pur avendo ottenuto i prestiti garantiti dallo Stato, soprattutto quelli fino a 30mila euro, il quadro diventa ancora più preoccupante. 

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Quasi inevitabile in questo clima di incertezza e di precarietà occupazionale che si amplifichino allarmi come quello sull’aumento del lavoro nero («Un numero di invisibili difficilmente quantificabile – osserva la Cgia di Mestre - anche se secondo gli ultimi dati stimati qualche anno fa dall’Istat, quindi ben prima dell’avvento del Covid-19, i lavoratori in nero presenti in Italia erano circa 3,2 milioni»). E che a forte rischio siano anche i lavoratori autonomi, largamente presenti nel Mezzogiorno, che a fronte di una riduzione generale del reddito del 3,4% per i lavoratori italiani hanno subìto una contrazione del 7,2% nel 2020 rispetto al 2019. La sensazione, ma forse ormai una certezza vera e propria, è che su precari e partite Iva l’effetto delle misure di salvaguardia dei governi in quest’ultimo anno ha pesato molto meno rispetto al lavoro dipendente, che peraltro già usufruisce di tutele proprie. Lo dimostra il dato Istat che ha calcolato nel 2020 circa 393mila occupati a tempo in meno e altri 209mila tra gli indipendenti. 

Ma ce n’è anche per la fascia centrale di età del mercato del lavoro, quella tra i 25 e i 49 anni: sempre in base ai dati dell’Istituto di statistica, è quella in assoluto più ferma. Spicca in particolare il dato sulla maggiore quantità di inattivi presente in questa categoria anagrafica, persone – in particolare donne – che ormai al lavoro sembrano avere definitivamente rinunciato. Cresce invece, in un Paese che vede l’ascensore sociale ormai bloccato da anni, il gap di genere sul tasso di occupazione: quello degli under 35, in particolare, è di oltre 21 punti più basso rispetto a quello degli over 50. È l’effetto dello tsunami abbattutosi in questi mesi sui settori che hanno fatto registrare il calo maggiore delle assunzioni: alberghi e ristorazione, industria in senso stretto, commercio, attività immobiliari, professionali e servizi alle imprese. E la riduzione dell’occupazione – ancorché con contratti per lo più stagionali e a tempo determinato – ha riguardato soprattutto i giovani. Lo conferma anche una recente ricerca dell’Ufficio studi di Confartigianato secondo la quale «a fronte di una flessione dell’occupazione nel settore del 2%, il calo degli occupati under 35 sale al 5,1% e a circa il 7% nel Mezzogiorno, con punte dell’11,2% in Calabria e del 10,9 in Basilicata». È un elemento di ulteriore preoccupazione se si tiene conto del fatto che l’imprenditoria artigianale o dei servizi, incentivata anche da Piani specifici, come “Resto al Sud”, dovrebbe dare una risposta importante alla fuga per il lavoro al Nord o all’estero. Il Covid rischia di incidere profondamente anche da questo punto di vista: un motivo in più per pretendere, proprio oggi, “Festa del lavoro”, che il Pnrr segni l’inversione di tendenza prevista nei suoi obiettivi. Perché se fallisce anche questo, la bomba sociale evocata da molti al Sud non la si eviterà più. 

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