Lavoro, i numeri che condannano i giovani soprattutto al Sud

Lavoro, i numeri che condannano i giovani soprattutto al Sud
di Sergio Beraldo
Lunedì 12 Aprile 2021, 09:07
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L'Italia è un paese che invecchia. Dal 2002 al 2020 l'indice di natalità per mille abitanti è calato da 9.4 a 7.0. La quota di ultrasessantacinquenni è cresciuta del 30%. Il risultato è che vent'anni fa vi erano 131 ultrasessantacinquenni ogni 100 giovani d'età inferiore ai 14 anni; ora ve ne sono quasi 180. Due osservazioni. Primo: il nostro sistema di protezione sociale non potrà reggere a lungo il peso di una popolazione che invecchia così tumultuosamente. Secondo: in un paese di vecchi le politiche sono decise dai vecchi, perché è a loro che devono particolarmente rivolgersi gli allettanti messaggi dei politici. È questa fascia della popolazione che diviene l'ago della bilancia nella competizione elettorale. Non è detto però che politiche che nel breve favoriscono i vecchi siano propizie per il paese; né che lo siano per gli stessi vecchi nel lungo periodo. E qui le colpe di una classe politica nel complesso assai rozza e inadeguata emergono con tutta evidenza.


SINDROME DEL PANDA
I giovani in Italia sono compressi, e somigliano sempre più ai panda. Belli da vedere e rari. Con un peso politico che drammaticamente crolla con la loro consistenza demografica. Certo. A parole è un continuo «largo ai giovani». Ma nei fatti nessuno appare disposto a rinunciare a una piccola porzione dei propri privilegi per agevolargli la vita. Per ridurre ad esempio il peso del debito pubblico che graverà sul loro groppone. Peso generato anche per sostenere una pubblica amministrazione che con essi non è affatto generosa: solo il 2.7% dei lavoratori pubblici ha meno di 35 anni. L'Istat (http://www4.istat.it/it/giovani) ha messo a punto un sistema informativo che raccoglie in un unico contenitore le evidenze che l'Istituto di statistica produce su adolescenti e ragazzi.

Alcuni dati colpiscono con ferocia. I giovani d'età compresa tra i 18 e i 24 anni che abbandonano prematuramente gli studi sono in Italia pari al 15%, contro l'11% dell'Ue (18.2% nel Mezzogiorno). Tra i 15 e i 24 anni sono inferiori in Italia sia i tassi di partecipazione al sistema di istruzione e formazione (55.6% contro il 62.1% dell'Ue) sia i tassi di immatricolazione all'istruzione terziaria (41.6% contro il 63.3% dell'Ue).

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SOS ISTRUZIONE
Meno studenti, magari di migliore qualità. Non proprio. L'Italia risulta indietro anche se si confrontano le competenze acquisiste. Ad esempio: la quota di studenti con scarse competenze in lettura è pari al 19.5; media OCSE pari a 18. Un dato che peraltro cela le profonde disparità nella distribuzione territoriale delle competenze così come risulta dalle indagini Invalsi. Nel 2019 il punteggio medio provinciale nel test di Italiano - scuole secondarie - variava dal 172 di Crotone al 182 di Napoli. Dal 210 di Milano al 223 di Lecco. Disparità che riecheggiano anche nella distribuzione delle prospettive occupazionali. Il tasso di disoccupazione nella fascia 15-29 anni, pari al 22.4 in Italia, si attesta su un disastroso 37.7 al Sud (40.8 tra le donne). Il tasso di inattività nella stessa fascia d'età, ovvero la quota di giovani non occupati né alla ricerca di un impiego, pari al 59.1 in Italia, assurge al 71.7 tra le donne che vivono nel Mezzogiorno. Cosa ancora più rilevante, tale tasso è pari al 51.9 anche se la donna meridionale ha conseguito la laurea o un titolo post-laurea. Un'evidenza che chiarisce le ragioni di una fuga divenuta impetuosa. Non solo dal Sud, ove essa appare piuttosto un esodo biblico. I meridionali emigrati nel periodo 2002-2017 sono stati circa 2 milioni. Nel solo 2017, dei circa 132 mila emigrati, la metà (50,4%) era costituita da giovani; di questi, circa un terzo aveva conseguito la laurea.


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Insomma, il sud produce relativamente meno giovani con elevate competenze e in aggiunta ne perde una fetta considerevole per via dell'emigrazione o perché restano inattivi, la qual cosa facilita lo scivolamento di una quota consistente delle energie più fresche verso la condizione di «neet» (una parola che indica chi non lavora, né svolge alcuna altra attività di formazione). Ora: a meno che non si pensi davvero che i giovani in Italia siano bamboccioni bisognosi delle cure di« mammà», non si possono che ricondurre alle scarse opportunità sia i tassi di attività ridotti che la riluttanza ad abbandonare il nido d'origine. La quota di persone tra i 18 e i 34 anni che vive in famiglia è in Italia pari al 64.3 (69.2 nel Mezzogiorno). Di tale quota risulta occupato il 38.7%, mentre la frazione in cerca di occupazione è pari al 20.9 (rispettivamente il 27.7 e il 30.3 al Sud). Ma ciò che questi dati non dicono è quanti giovani guadagnano a sufficienza per condurre una vita in autonomia, a debita distanza dalla pensione dei genitori. In realtà, oltre il 30% dei giovani italiani occupati guadagna meno di 800 euro lordi mensili, in un paese in cui la mobilità sociale è tale da lasciare inalterata la condizione reddituale di un terzo (rispettivamente il 60%) dei giovani nati nelle famiglie che si collocano nel 20% inferiore (rispettivamente nel 40% superiore) della distribuzione dei redditi (Rapporto Oxfam 2020). E se lavorare a ottocento euro al mese può sembrare un triste destino, finire tra i neet è anche peggio. Come evidenziato nel Rapporto Giovani dell'istituto Toniolo (2019), v'è una differenza statisticamente significativa nel benessere medio soggettivo tra neet e non neet (4,26 contro 3,65 in una scala da 1 a 7), così come v'è una differenza nell'autovalutazione del proprio stato di salute tra gli individui appartenenti ai due gruppi, a favore dei non neet. Nel corso del piratesco arrembaggio alle risorse del recovery fund tutt'ora in corso, chissà se qualcuno ricorderà che il titolo del programma di interventi deciso dall'Unione è «Next generation EU». La prossima generazione dell'Unione Europea. Per questa non è infatti ancora tempo. «E forse non lo sarà mai», come cantava Luciano Ligabue. Almeno qui da noi.
 

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