Pensioni caos, troppe scorciatoie: in Italia si lascia il lavoro prima

Pensioni caos, troppe scorciatoie: in Italia si lascia il lavoro prima
di Sergio Beraldo
Martedì 26 Ottobre 2021, 11:00
5 Minuti di Lettura

È un'antica abitudine italiana quella di modificare le regole a gara in corso, seguendo le convenienze del momento. Si tratta di un'abitudine che produce effetti negativi a breve e a lungo termine. I primi sono connessi con la distorsione immediata dei comportamenti, di solito prodotta dal panico che si genera per l'inatteso cambiamento. Gli effetti negativi a lungo termine sono invece connessi con l'incertezza cui le persone sono soggette a causa delle variazioni nello scenario normativo, spesso percepite come stravaganti.

Nel caso delle regole che sovraintendono all'ottenimento dell'agognata pensione, questa incertezza è particolarmente nociva. Incide negativamente sulla possibilità di pianificare correttamente la dinamica del proprio consumo nel tempo; condiziona i tassi di risparmio e l'offerta di lavoro. 

Regnante un'ubriacante insicurezza sul mondo che verrà, le persone sono indotte a cogliere al volo le occasioni che si presentano, compiendo scelte diverse da quelle che esse invece effettuerebbero se le regole fossero stabili e chiare. O pentendosi per le scelte compiute, come molti «esodati» potrebbero testimoniare. Ciò senza considerare le ingiustizie legate alle disparità di trattamento, con divari nell'accesso ai benefici che possono essere, a causa del mutamento delle regole, anche molto stridenti. 

La sintesi è che le erogazioni pensionistiche andrebbero maneggiate con maggiore cautela.

Ma i politici sono sordi a questo grilloparlantesco richiamo. E sulla spesa ad esse connessa, che quest'anno raggiunge il 17.1% del prodotto interno lordo, continuano ad accumularsi decisioni anche estemporanee, che tengono conto del vantaggio elettorale immediato; che individuano nel sistema pensionistico il capro espiatorio delle inevitabili ristrutturazioni connesse con l'operare di un'economia di mercato.

A partire dal 2019 il rapporto tra spesa pensionistica e PIL ha esibito un rialzo inatteso. A parte la rilevante contrazione del prodotto dovuta all'impatto della pandemia, le cause sono da ricercare negli aumenti di spesa dovuti all'approvazione di alcune misure in ambito previdenziale. In particolare, com'è ampiamente noto, per il periodo 2019-2021 è stata prevista la possibilità di godere del pensionamento in presenza di un'anzianità contributiva di almeno 38 anni e di un'età anagrafica non inferiore a 62 anni (cosiddetta «Quota 100»). In conseguenza di tale misura, si è assistito, nel biennio appena trascorso, a un aumento del numero di pensioni in rapporto al numero di occupati, oltre che a un deflusso di individui dal mercato del lavoro. Effetti peraltro simili a quelli di altre previsioni normative, che hanno introdotto specificazioni, eccezioni, deroghe; anche nobili, per carità. Basti citare, in aggiunta alle altre agevolazioni al pensionamento previste a favore di particolari categorie, il caso di «Opzione donna» (Legge di Bilancio 2021), una misura che consente l'accesso al pensionamento anticipato per le donne che maturano, nel 2020, 35 anni di contributi e 58 (ovvero 59, dipende dalla tipologia d'impiego) anni di età. 

Ora, l'effetto di questi provvedimenti è anche, inevitabilmente, quello di ampliare il divario tra l'età pensionabile - ovvero l'età normalmente prevista per la pensione e l'età effettiva di pensionamento.

Ovviamente è l'età effettiva di pensionamento quella a cui guardare per garantire sistemi pensionistici adeguati e sostenibili. Soprattutto sino a che il metodo di calcolo delle spettanze sarà di tipo prevalentemente retributivo (con il graduale pieno passaggio al contributivo, l'età effettiva di pensionamento è destinata a perdere d'importanza, perché le erogazioni saranno calcolate sui contributi effettivamente versati).

La percezione di molti cittadini è che le norme disciplinanti l'accesso alle prestazioni pensionistiche divengano sempre più stringenti. Che l'agognato riposo venga spostato, con una certa regolarità, qualche metro più in là. Che in Italia si pretenda dalle persone più di quanto si pretende altrove.

Ma è davvero così? Cosa mostrano i dati? 

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Innanzitutto, se si guarda alla dinamica dell'età effettiva di pensionamento nel periodo 1970-2018, si osserva che in Italia essa è inferiore sia alla media Ue, sia alla media dei Paesi Ocse. In linea con l'evoluzione di tale indice a livello internazionale, anche nel nostro Paese l'età effettiva di pensionamento è cresciuta a partire dalla seconda metà degli anni '90. Essa si è tuttavia mantenuta ben al di sotto della media dei gruppi di riferimento, nonostante l'età pensionabile sia ormai, in Italia, maggiore di quella fissata in altri paesi Europei (comparabili per dimensione demografica e intensità dell'intervento pubblico). Come dire, severi nella forma, blandi nella sostanza.

Nel passaggio dal 2017 al 2018 ultimo anno per cui i dati sono disponibili si nota, in Italia, un innalzamento sia dell'età pensionabile sia dell'età effettiva di pensionamento. Segno di un certo effetto di trascinamento della prima sulla seconda. Il quadro tuttavia non muta granché. La differenza tra soglia fissata dai requisiti anagrafici e momento effettivo del pensionamento era pari, nel 2017, a 4,5 anni per gli uomini (3,7 nel 2018), e a 4,3 anni per le donne (5,1 nel 2018). È significativo osservare che tale differenza ha segno opposto per l'insieme dei paesi Ocse, e che, con tutta probabilità, si è ampliata, in Italia, nel corso dell'ultimo biennio. La qual cosa induce a riflettere anche sulle modalità dell'intervento pubblico, spesso estemporanee; modalità d'intervento che condizionano l'efficienza non meno di quanto mortifichino l'equità.

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