«Quiet quitting»: definizione, storia e rischi del licenziamento silenzioso

La tendenza a fare il necessario per non perdere il posto di lavoro

«Quiet quitting»: definizione, storia e rischi del licenziamento silenzioso
di Ferdinando Gagliotti
Lunedì 21 Novembre 2022, 08:16 - Ultimo agg. 17:28
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Un numero sempre crescente di persone è insoddisfatto del proprio lavoro. Più nello specifico, sta aumentando la tendenza a considerare il lavoro come un qualcosa per cui non valga la pena disperdere troppo tempo ed energie. Il report State of the global workplace 2022 della società di ricerche di mercato Gallup dice che in Europa solo il 14% dei dipendenti è davvero coinvolto nella propria attività lavorativa e che appena il 33% si sente appagato.

È così che nasce il “quiet quitting”, ovvero la tendenza a lavorare rispettando il proprio contratto, ma allo stesso tempo solo il necessario per non perdere il posto di lavoro, rifiutarsi di fare straordinari, aderire a progetti e assumersi responsabilità che non rientrano strettamente nell’orario di lavoro e nelle mansioni indicate sul contratto. È un fenomeno sempre più diffuso e che preoccupa sempre maggiormente i dirigenti d’azienda.

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«Il quiet quitting - spiega Giacomo Maria Spera, psicologo e psicoterapeuta - rappresenta una realtà attuale, anche un po’ forzata dall’esigenza di dover dare sempre un nome alle cose, creando così una moda.

In effetti, questo abbandono silenzioso rappresenta la capacità dei dipendenti - soprattutto quelli subordinati nelle aziende - di lavorare in modalità meno operosa e attenta, dove il focus si sposta dal lavoro e vi è una sorta di alienazione per cui si tende a fare il minimo sindacale. In una cultura come la nostra, nella quale veniamo esortati a una produttività smisurata, questo fenomeno è considerato come negativo».

«In questo senso - continua Spera - la pandemia ha certamente accentuato il fenomeno, perchè ci siamo trovati a fare i conti con il limite della morte rappresentato dal Coronavirus e dalla pandemia stessa». Dunque la “nascita” del quiet quitting coincide con l’arrivo del Covid? Non esattamente. «Dal punto di vista storico, questo atteggiamento del lavoratore esiste praticamente da sempre. Nelle culture mediterranee, rispetto a quelle nordiche - senza creare gli stereotipi dei meridionali o dei settentrionali - è sempre esistita questa opportunità del lavoro come una parte della vita, e non come la totalità della vita stessa. È questo un aspetto sano, nella misura in cui non distoglie dai propri doveri e responsabilità. Ma a volte rappresenta una vera e propria via di fuga da una pressione sociale molto alta, e quando si è al riparo dai meccanismi di controllo - specie nelle aziende - è molto più facile scappare».

Il quiet quitting si presenta come risposta a fenomeni lavorativi opposti come il “burnout”, ovvero una sindrome legata allo stress lavoro-correlato, che porta il soggetto all’esaurimento delle proprie risorse psico-fisiche, alla manifestazione di sintomi psicologici negativi. Ma se il burnout conduce verso complicanze non trascurabili a livello psico-fisico, il quiet quitting non presenta solo lati positivi. «Il licenziamento è certamente una conseguenza possibile a questo atteggiamento - termina il dott. Spera -, ora bisogna capire se questo viene assunto dalle aziende come opportunità, come capro espiatorio, o anche da parte del dipendente come una conscia o meno conscia opportunità di andare via e trovare un equo spazio nelle manifestazioni della propria vita, anche più intima, che non dovrebbe essere composta solo di lavoro».

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