Sblocco licenziamenti, ecco chi rischia subito: Whirlpool, Elica e Jabil

Sblocco licenziamenti, ecco chi rischia subito: Whirlpool, Elica e Jabil
di Nando Santonastaso
Lunedì 28 Giugno 2021, 23:30 - Ultimo agg. 24 Marzo, 08:05
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I metalmeccanici dovrebbero essere meno dei tessili e degli addetti alla moda, i dipendenti a termine delle imprese dei servizi più numerosi di quelli dell’automotive. Ma anche ragionando per categorie e contratti resta arduo per tutti gli addetti ai lavori calcolare quanti posti potrebbero essere spazzati via, al netto delle ultime decisioni del governo, dalla fine del blocco dei licenziamenti prevista per dopodomani, giovedì. Il fronte più caldo sembra quello degli elettrodomestici e non solo per la drammatica vicenda degli operai Whirlpool di Napoli. Anche i colleghi di un’altra nota azienda di settore, la Elica, che produce cappe aspiranti, rischiano grosso dopo la decisione dell’azienda, nel marzo scorso, di trasferire parte della produzione in Polonia, di chiudere lo stabilimento di Cerreto in provincia di Ancona e soprattutto di rinunciare a circa 400 dei 560 addetti del comprensorio marchigiano. Finora il blocco dei licenziamenti ha evitato il peggio ma, proprio come per la Whirlpool di via Argine, il futuro a breve termine non promette nulla di buono anche dopo l’intervento del ministero dello Sviluppo economico. 

Ma c’è in fondo solo l’imbarazzo della scelta tra i 99 tavoli di crisi aperti al ministero su quale delle vertenze industriali ancora irrisolte rischia di chiudersi alla stessa maniera.

Tante, anche dopo anni, continuano a procedere a strappi, quando va bene, di proroga in proroga della Cig soprattutto, di mobilitazione in mobilitazione e senza concreti piani di riconversione. Dall’ex Embraco del Piemonte, con altri 400 lavoratori per il momento salvati dagli ammortizzatori sociali ma di fatto ancora senza prospettiva di riresa produttiva, all’ex Embraco Acc del Veneto, con 300 lavoratori sulle spine e il sito a rischio chiusura; dall’ex Lucchini di Piombino alla Bekaert di Figline Valdarno; dalla Jabil di Marcianise, nel Casertano, all’ex Fiat di Termini Imerese, in Sicilia. E all’elenco non si può non aggiungere un indotto di altre migliaia di unità che negli anni è cresciuto molto sul piano qualitativo e tecnologico ma che privo di filiere certe e affidabili potrebbe precipitare senza appello. 

Ripete Roberto Benaglia, segretario generale della Fim Cisl, che ai 52 tavoli di crisi nazionali aperti direttamente al ministero dello Sviluppo economico e ai 47 tavoli regionali ne vanno in realtà aggiunti molti altri. «Sfuggono al conto, ad esempio, le imprese che nel 2020 sono fallite sotto la scure della crisi o quelle che sfuggono al radar perché non sindacalizzate. La maggiore concentrazione di situazioni di crisi è nel Mezzogiorno e nelle Isole maggiori, l’area del Paese che maggiormente necessità di politiche industriali che puntino alla modernizzazione delle infrastrutture e investimenti che aiutino le imprese a fare il salto tecnologico».

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Il governo, nelle more delle ultime decisioni su come procedere allo sblocco dei licenziamenti, avrebbe fatto trapelare la volontà di introdurre meccanismi in grado di evitare il salto nel buio per i lavoratori delle aziende più esposte. Niente misure traumatiche, insomma, almeno per qualche tempo. I sindacati attendono conferme ma guardano anche più in là della scadenza di giovedì prossimo. A cosa accadrà ad esempio nell’automotive: perché, osservano i rappresentanti dei lavoratori, l’importante, recente annuncio di Stellantis di partire da Melfi per l’elettrificazione dei nuovi modelli del gruppo non risolve le incognite occupazionali legate all’introduzione delle nuove tecnologie produttive. Quanti tecnici serviranno realmente sulle piattaforme di Melfi, Pomigliano e Cassino? E quale sarà il destino dello stabilimento di motori di Pratola Serra in Irpinia ora che il futuro dei propulsori a benzina e diesel, storica missione dell’impianto, sembra segnato?

C’è anche questo nell’incertissima vigilia del ritorno ai licenziamenti. Ma forse, come spiegano molti economisti, è in autunno che la patata bollente scotterà di più. Perché è allora che cesserà la copertura della cassa integrazione Covid per le piccole imprese che in Italia, come ormai sanno tutti, sono la stragrande maggioranza del sistema produttivo (e le microimprese ancora di più). Se la ripresa non incontrerà ostacoli di carattere pandemico, con il ritorno cioè a misure di chiusura per effetto di malaugurate varianti, l’impatto potrebbe essere più soft. Ma molti temono che per settori chiave, come la moda e il tessile, il turismo e la stessa automotive (per via della lentezza con cui sono ripartite le immatricolazioni di nuovi veicoli in questi mesi) le incognite resteranno. E dipenderanno soprattutto da due fattori: l’avvio di una seria formazione per il personale, per adeguarne le competenze ai nuovi percorsi produttivi che dovrebbero essere guidati dalla digitalizzazione; e gli ammortizzatori sociali che almeno inizialmente dovranno prendersi carico dei lavoratori a rischio di disoccupazione o, appunto, di licenziamento.

E che siano tanti nessuno ormai lo nega più: secondo l’ormai noto studio di Bankitalia, che di sicuro non può essere essere accusata di essere “collaterale” a sindacati e lavoratori, il blocco dei licenziamenti ha evitato la perdita di 440mila posti di lavoro ma almeno 200mila di queste persone sarebbero state licenziate per ragioni legate alla diffusione del Coronavirus in Italia e alle limitazioni imposte per frenare il contagio. Quante di esse torneranno al lavoro in autunno? 

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