Marchionne, l'avvocato delle cause vinte

di Oscar Giannino
Domenica 22 Luglio 2018, 08:00 - Ultimo agg. 09:02
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Sergio Marchionne è stato un manager anomalo. In un mondo automobilistico mondiale scosso da crisi epocali negli ultimi 15 anni e dominato da capi d’azienda maturati per tutta la vita nel mondo delle quattro ruote, sia negli Usa che in Europa, è toccato a un professionista multidimensionale, che però non era un car guy - ma un avvocato, certificatore di aziende, ottimizzatore finanziario, riassicuraratore per le imprese - salvare due marchi storici che erano falliti. E su cui nessuno o quasi se la sentiva di scommettere. L’ultimo grande regalo alla Fiat di Umberto Agnelli, che di Marchionne aveva annusato l’abilità proteiforme, e la feroce dedizione al lavoro e ai risultati. E che lo consigliò a Grande Stevens e Gabetti, mentre gli eredi Agnelli erano giovani e spaesati nell’avvicendarsi di capiazienda inadeguati dopo la scomparsa dell’Avvocato.

Ricordiamocelo bene. La Fiat era di fatto tecnicamente fallita nel 2004, prostrata da anni di errori gravi, da scelte sbagliati in settori diversificati che da lungo tempo le avevano fatto saltare il ciclo di investimenti necessari sull’auto, per fronteggiare innovazione e concorrenza spietata. Già due anni dopo la cura Marchionne produceva il ritorno a margini positivi. Ma la crisi del 2008 riportava la Fiat nuovamente vicina al baratro. L’abisso aperto nel post 2011 sui volumi del mercato italiano dell’auto non avrebbe mai potuto consentire alla Fiat di sopravvivere. 

Ed ecco la nuova dimensione dell’immenso valore aggiunto che Marchionne ha rappresentato per gli eredi Elkann ed Exor. Solo perché Marchionne era Marchionne, figlio di emigrati italiani ma canadese e statunitense per formazione professionale e svizzero per affinate qualità finanziarie, solo a lui Obama poteva affidare nel 2009 il salvataggio di Chrysler, che malgrado l’ingente soccorso di Stato rappresentava ormai iconicamente il declino di Detroit: troppi brand fuori mercato, con costi, piattaforme e sistemi produttivi fuori standard, rispetto alla sferzata di produttività portata nel mercato domestico Usa dagli stabilimenti aperti dalle case automobilistiche giapponesi.

In Italia, paradossalmente ma non troppo, visti i nostri riflessi condizionati spesso provinciali, il matrimonio tra Fiat e Chrysler e la puntuale restituzione con Marchionne del maxi prestito federale agli Usa, e la riacquisizione delle quote aziendali finite in pegno al governo Usa e del Canada, suscitarono un dibattito non rivolto al futuro ma con la testa rivolta al passato. L’ “americano” Marchionne venne da troppi presentato come il dissolutore della Fiat “italiana”. Puntualmente una nuova ondata di critiche si scatenò quando il gruppo quotato assunse una forma giuridica e una sede legale e fiscale internazionale, tra Italia, Stati Uniti, Regno Unito e Olanda. Reazioni irragionevoli: tutti sembravano aver dimenticato in men che non si dica che la Fiat “italiana” che rimpiangevano avrebbe, senza Marchionne, consegnato i libri in tribunale. E che solo grazie a lui, invece si vedeva riproiettata sulla scena mondiale. 

Certo, il settimo o l’ottavo gruppo mondiale, perché Toyota, Wolksvagen, General Motors e Ford, i brand del settore premium tedesco e i giganti dell’auto asiatica non avevano alle spalle gli errori che erano stati commessi a Torino, e avevano da lungo tempo piattaforme ad alta marginalità, nei segmenti a più alto valore aggiunto. Ma è stato Marchionne da solo, con la sua rocciosa e instancabile capacità di avere sotto di sé sino a oltre 80 linee di riporto negli anni iniziali del turn around amero-italiano, ad aver reso possibile qualcosa che è del tutto analogo a Cristo che dice a Lazzaro defunto “alzati e cammina”.

C’è un secondo aspetto che a Marchionne è valso molte polemiche in Italia. Negli anni 2011-2013, il triennio della reimpostazione degli accordi aziendali e della ridefinizione delle piattaforme prodotte negli stabilimenti italiani, con la chiusura di Termini Imerese e Mirafiori in cassa integrazione. La Fiom scelse la via dello scontro frontale: non firmava le intese, le contestava frontalmente, e imboccava la via giudiziaria come forma di scontro diretto, alternativo alla contrattazione. Marchionne tirò dritto, mentre la scommessa dell’ala antagonista del sindacato rosso era che alla fine Fca non avrebbe retto alle proteste che trovavano vasta eco nei media e nell’intellettualità italiana. Marchionne tirò diritto, scuotendo anche Confindustria dalle fondamenta e rompendo con Viale dell’Astronomia in nome della piena derogabilità ed esigibilità dei contratti aziendali definiti con il sindacato riformista sui posti di lavoro, rispetto alla gabbia rigida del contratto nazionale. 

Lo scontro fu durissimo, a 360 gradi: anche molti imprenditori non se la sentivano di sostenere la sfida diretta con Landini. Ma i fatti hanno dato ragione a Marchionne: Pomigliano, Melfi, Cassino, Mirafiori, la ridislocazione delle piattaforme Alfa e Maserati negli stabilimenti che restano operativi, tutto questo c’è ancora - e oggi aspetta le nuove scelte derivanti dal nuovo piano industriale – solo grazie al fatto che la fermezza di Marchionne ha dato l’occasione nella Fim-Cisl e nella Uilm di veder emergere una generazione di sindacalisti che al contratto aziendale credono con le unghie e con i denti, per difendere la presenza e l’occupazione italiana non solo nell’auto ma nell’intera filiera dell’automotive e componentistica.

Certo, Marchionne ha avuto i suoi difetti. Molte volte i volumi produttivi annunciati nei suoi innumerevoli piani presentati al mercato non sono stati raggiunti. Lancia si avvia alla scomparsa, e anche Alfa Romeo è lontanissima dalle promesse. Ma per Maserati e Ferrari la scommessa sul settore premium è stata vinta. Come negli Usa è stata una vittoria piena puntare tutto su Jeep e Ram. E non è un caso che il capo di questi due brand sia oggi l’erede prescelto al difficile compito di sostituire Marchionne, Michael Manley. C’è da scommettere che in Italia ci sarà chi protesterà anche perché dopo Marchionne la guida aziendale passa ora a un anglosassone: ma siamo sempre lì, si dimentica che l’alternativa era la morte della Fiat, non una sua diversa sopravvivenza. 

Il grande rammarico per Marchionne è stata la Cina: dove sono presenti in forze General Motors e Ford, insieme ai giganti tedeschi. Ma nell’Impero di Mezzo gli errori compiuti da Torino negli anni Novanta si sono rivelati troppo gravi per poter essere superati quando i concorrenti già avevano messo solide radici in quell’immenso mercato. 

Marchionne è stato un gigante. Da due fallimenti ha tirato su un gruppo da oltre 110 miliardi di dollari di fatturato, e con un piano pluriennale di investimenti attualmente di circa 45 miliardi. Ancora un anno fa non credeva nell’auto elettrica, ma in 12 mesi si è tanto ricreduto da ammettere onestamente l’errore, e stanziare 9 miliardi di investimenti a questo fine nell’ultimo piano che lascia da realizzare. Avercene, della sua tempra: non solo ha reso un servizio gigantesco all’Italia produttiva, ma anche a decine e decine di migliaia di lavoratori americani. Per questo, lì lo amano alla follia. Più di quanto non avvenga da noi. 
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