di Alessandro Campi
Mercoledì 13 Maggio 2020, 00:27 - Ultimo agg. 18 Maggio, 14:43
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Sono stati tanti gli effetti politici, diretti e indiretti, della pandemia ancora in corso. Minore ma non irrilevante per gli equilibri politici nazionali (e per le sorti del governo in carica) quello di aver congelato (rendendolo al tempo stesso manifesto) il profondo malessere che da mesi attraversa il M5S e al quale, strada facendo, si è sommata un'evidente mancanza di strategia politica.

Tutto è cominciato con le dimissioni dal ruolo di capo politico di Luigi Di Maio nel gennaio di quest'anno, causate dai continui rovesci elettorali e dal pressing interno dei suoi nemici. Dimissioni un po' teatrali si tolse in pubblico la cravatta che è sempre stato il suo contrassegno che avrebbero dovuto portare agli Stati generali del Movimento, fissati per il marzo successivo, e alle indicazioni di un nuovo leader o portavoce momentaneo supremo (con i grillini non si sa mai quali termini scegliere).

Ma è intervenuta l'emergenza sanitaria da Covid-19. E l'interim assunto da Vito Crimi si è trasformato in una reggenza che voleva essere forte e autorevole (ho tutti i poteri del capo politico, disse al momento d'insediarsi), ma che al contrario si è rivelata debole, incapace dunque di ricucire le differenze interne di visione politica e di neutralizzare i personalismi. 

Nel frattempo è anche accaduto che l'uomo fortemente voluto dal M5S alla guida del governo abbia abilmente gestito la crisi pandemica sino a rendersi sempre più indipendente sul piano delle scelte di governo e della collocazione politica. Conte ormai gioca in proprio, da player libero dai condizionamenti partitici, avendo come interlocutori principali il Colle (sul piano istituzionale) e il Pd (all'interno dell'esecutivo).

Per il M5S si è aperta una fase di crescenti incertezze, acuite anche dallo strano silenzio di Beppe Grillo in queste settimane e appena compensate dalle numerose poltrone che, nel giro delle nomine pubbliche, i grillini solo riusciti ad occupare in continuità perfetta con la vecchia politica tanto biasimata nei comizi e nelle dichiarazioni pubbliche. Incertezze alle quali s'è cercato di rispondere come sempre fanno i partiti che, dopo aver annunciato di voler cambiare il mondo, scoprono di non saperlo fare: ci si riscopre intransigenti, si prova a tornare alla purezza delle origini dando la colpa al mondo se le cose vanno male.
Prima ci si è dunque messi di traverso sul Mes: un antico cavallo di battaglia anti-europeista, condiviso con la destra sovranista, che Conte è questione di giorni riuscirà comunque a far digerire ai grillini visto che quei soldi, al di là della propaganda, servono all'Italia. Si tratta solo di trovare le parole giuste per presentare l'accettazione dei 37 miliardi messi a disposizione dall'Europa come un prestito a bassissimo costo e tutto sommato conveniente. 

Ci si è spostati allora su un altro fronte di lotta: il no alla regolarizzazione (temporanea) dei migranti che lavorano come stagionali nell'agricoltura, proposta dalla sinistra ma condivisa da Conte come strumento utile a combattere il caporalato. Per il M5S, facile prevederlo, sarà un altro rospo da ingoiare, su un tema che nuovamente sembra accomunarlo alla destra di Salvini e della Meloni. Una stranezza solo apparente, che ci dice in realtà due cose. La prima sostanziale: l'elettorato del Movimento, come ben sanno i suoi vertici, su molte questioni a partire dall'immigrazione ha posizioni che sono simili a quello della Lega, che dunque rappresenta un concorrente nelle urne più che un avversario ideologico. La seconda più politicamente blanda ma comunque significativa: ci sono esponenti grillini di primo piano (a partire dallo stesso Crimi, in questo assai vicino a Di Maio) che non hanno mai digerito la rottura con la Lega, ovvero non hanno mai considerato come strategica e di lungo periodo l'alleanza con il Pd. 

Aggiungiamo a tutto ciò l'incidente di percorso che ha riguardato il ministro della giustizia Bonafede: prima il suo scontro con il magistrato Nino Di Matteo sulla mancata nomina di quest'ultimo alla guida del Dap, poi le polemiche sulle scarcerazioni per motivi di salute di alcuni boss mafiosi, hanno avuto un che di surreale, trattandosi dell'esponente di un partito che sulle manette facili e sulla lotta senza quartiere alla criminalità organizzata ha costruito gran parte della sua propaganda. 

La conclusione di questo ragionamento, anch'essa vagamente surreale, è che se all'inizio è stato il M5S a tenere in piedi il governo Conte bis, grazie alla sua soverchiante forza parlamentare, oggi è il governo Conte reso politicamente inamovibile dall'emergenza in corso a tenere forzatamente unito il M5S.

Al quale rimane a questo punto solo una carta da giocare, anche quest'ultima una sorta di ritorno alle origini, alla sua anima pauperista e statalista: trasformare quanto più possibile il cosiddetto decreto Rilancio, che ancora non riesce a vedere la luce, in una distribuzione a pioggia di bonus, incentivi e sussidi, in uno spezzatino normativo nel segno dell'assistenzialismo. Soldi pubblici, in cambio di consenso travestito da giustizia sociale. Un obiettivo che il Pd potrebbe anche condividere, ma con una difficoltà in più: placare le richieste della parte più attiva e produttiva del Paese in una situazione drammatica come quella in cui ci troviamo. Equazione, ammettiamolo, un po' difficile.
 
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