di Cesare Mirabelli
Giovedì 1 Agosto 2019, 00:15
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Il disegno di legge che attribuisce al Governo una delega per la riforma della giustizia manifesta una ambizione e contiene una insidia. Proporre un unico provvedimento per riforme che comprendono il processo civile, il processo penale, l’ordinamento giudiziario, la carriera dei magistrati, il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, offre l’idea che si persegue una “grande riforma”, destinata ad incidere profondamente sul sistema ed a rendere efficiente il funzionamento della giustizia. La diversità dei temi trattati, ciascuno oggetto di una o più deleghe al Governo, alcuni di carattere prevalentemente tecnico, come quelli che riguardano il processo, altri di maggiore spessore politico, come quelli relativi ai magistrati ed al Consiglio superiore della magistratura, implicano il rischio che difficoltà o intoppi in Parlamento su singoli aspetti di una proposta così complessa blocchi o renda più difficile il percorso anche per quelle parti della riforma, ciascuna relativa ad un tema omogeneo, per le quali vi sia larga condivisione.

Per quanto riguarda il processo, sia civile che penale, un elemento tecnico dominante è l’accentuazione della informatizzazione. Deposito di atti, comunicazioni e notifiche, sono esclusivamente affidate a sistemi telematici. Ne dovrebbe derivare, sia pure con qualche complessità operativa forse sottovalutata, il superamento di tempi morti e di incertezze nel buon esito delle notifiche, che particolarmente nel processo penale determina il rinvio delle udienze.

Nel processo civile si tende a governarne la durata, sin dal ricorso che lo introduce, fissando termini stringenti per gli atti da compere dalle parti e dal giudice, e ad accentuarne la oralità, sino alla sentenza resa immediatamente dopo la discussione, con la lettura del dispositivo e possibilmente delle ragioni della decisione. Modalità analoghe anche per il giudizio di appello, che attualmente costituisce la fase che ha maggiore difficoltà a contenere i tempi richiesti per la decisione. E’ offerta anche una apertura per l’attività istruttoria stragiudiziale, sempre con la garanzia del contraddittorio tra le parti e della difesa tecnica.

Anche per il processo penale sono scanditi i tempi per il compimento delle attività. Sin da quella delle indagini preliminari che compie il pubblico ministero, la cui violazione può determinare responsabilità disciplinare. È evidente il tentativo di bilanciare il già previsto allungamento dei tempi di prescrizione dei reati, sterilizzandone gli effetti con l’auspicato abbreviamento della durata dei processi. Una novità, almeno sul piano legislativo, perché già sperimentata in alcune procure, è la possibilità affidata al pubblico ministero di prevedere e rendere trasparenti e predeterminati i criteri con i quali selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza. In qualche modo si supera di fatto il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che viene raccordato alle capacità operative degli uffici di procura. Tuttavia ne deriva, in singoli territori, ad una annunciata ed implicita “depenalizzazione giudiziaria” di reati considerati di minor rilievo. É anche significativa la introduzione di casi nei quali non è consentito appellare le sentenze: di proscioglimento per reati di minor rilievo, o di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità.

L’obiettivo di ridurre la durata ora eccessiva dei processi, che ha determinato numerose condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, è affidato ancora una volta a modifiche delle regole processuali, mentre rimangono sottovalutati gli aspetti che riguardano la efficienza della organizzazione e delle risorse. 
Gli aspetti politicamente più sensibili riguardano la “riforma ordinamentale della magistratura”, che dedica largo spazio ai criteri ed alle procedure per la nomina negli uffici direttivi. Una disciplina che articola minutamente i tradizionali criteri della anzianità, delle attitudini e del merito sin qui riempiti da circolari del Consiglio superiore della magistratura. È evidente l’intenzione di porre rimedio sul piano normativo a quanto reso evidente dalle recenti vicende per la nomina del Procuratore della Repubblica di Roma. Tuttavia l’eccesso di dettagliati vincoli nel procedimento e nella articolazione dei criteri rischia di alimentare ulteriormente il già frequente ricorso al giudice amministrativo contro i provvedimenti di nomina. D’altra parte un sistema nel quale prevalesse il buon andamento, dovrebbe essere il riconoscimento dell’autorevolezza del Consiglio e la linearità delle sue scelte a costituire la migliore garanzia per la selezione dei magistrati che aspirano a funzioni direttive.

Dunque è questo un nodo essenziale. Il disegno di legge governativo lo affronta con riguardo alle elezioni dei magistrati componenti del Consiglio superiore della magistratura, il cui numero in controtendenza rispetto all’andamento generale nuovamente si accresce da sedici a venti. Le elezioni si svolgono con un sistema misto: nella prima fase solo sorteggiati i magistrati che possono presentare la propria candidatura nel collegio dove esercitano le loro funzioni. Nella seconda fase sono eletti essere candidati più votati nelle singole circoscrizioni. La limitazione al potere di fatto delle correnti organizzate resta dunque affidata alla sorte, alla casualità delle potenziali candidature. 
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