di Gianfranco Viesti
Giovedì 7 Maggio 2020, 00:42 - Ultimo agg. 18 Maggio, 14:47
4 Minuti di Lettura
Impossibile non essere molto preoccupati per l'economia italiana. Ancor più dopo le previsioni della Commissione Europea di ieri: che confermano una possibile caduta del Pil 2020 superiore al 9%, e che indicano una possibile contrazione degli occupati del 7,5% (oltre un milione e mezzo), ben più alta di quella prevista nel Def. E impossibile non essere preoccupati per le loro possibili conseguenze: una corsa di interessi, associazioni di rappresentanza, territori ad ottenere il massimo per se stessi; a provare a salvarsi da soli. Quello che ci serve, al contrario, è un ragionamento d'insieme sul sistema-paese; su come tutti insieme ci possiamo salvare, senza lasciare dietro macerie imprenditoriali, sacche di disoccupazione, territori ancora più indebolite. Perché solo con un progetto unitario l'Italia si può riprendere: ricordando che restiamo una grande economia avanzata; e mettendo a valore tutte le nostre risorse, a cominciare dalle persone e dalle interdipendenze fra imprese, settori e regioni che fanno sì che della crescita degli uni traggano vantaggio anche gli altri.
Un ragionamento che ha diverse facce. Una di esse, come ricordava domenica su queste colonne Romano Prodi, deve essere quella di una intelligente politica industriale. Quale? Nessuno ha la ricetta in tasca, anche perché viviamo tempi largamente ignoti. Quel che serve è una grande mobilitazione cognitiva: una discussione pubblica aperta, critica, senza preconcetti, su quel che qui e ora, con le conoscenze e le risorse di cui disponiamo, si può provare a fare. Con umiltà, ma anche con un pizzico di coraggio. In questo spirito, si può provare a riprendere per cominciare uno dei temi sollevati dallo stesso Prodi: il reshoring. Di che parliamo? Nei due decenni a cavallo del nuovo secolo una parte significativa della capacità produttiva italiana ed europea è stata trasferita all'estero, alla ricerca di minori costi del lavoro. Nel periodo più recente questo processo si è arrestato, ma non si è invertito. Ma oggi ci sono due dati di fatto: i rischi connessi a catene produttive troppo estese geograficamente sono molto cresciuti nella percezione delle imprese; la totale mancanza di capacità produttiva in alcuni ambiti (si pensi alle mascherine) viene avvertita dalla nostra società, e dai decisori politici, come un rilevante problema. Dunque il tema è discutere se e quanto sia possibile far rinascere o nascere in patria, in Europa, questa capacità produttiva (reshoring). Ne hanno parlato nei giorni scorsi il Presidente francese Macron e il ministro tedesco della Salute Spahn; il Giappone ha avviato alcune iniziative concrete di supporto alle imprese. Parliamo certamente di produzioni alimentari, della filiera della salute, ma anche, molto, di componentistica meccanica e per i settori leggeri, di prodotti finiti.
Ha ragione Prodi: È evidente la necessità di fare in modo che questo processo coinvolga l'Italia con la massima possibile intensità. Come? Non si tratta di riportare, d'imperio o d'incanto, quelle produzioni così come sono realizzate ora, a costi del lavoro impossibili per l'Italia. Ma di provare a ridisegnare i processi produttivi (con parziali automazioni) e logistici (per accrescere flessibilità e puntualità dei flussi) per renderli compatibili con le nostre condizioni produttive. Per fortuna, non esistono solo gli impianti ipertecnologici automatizzati e i capannoni del Bangladesh in cui si cuce. Nell'economia contemporanea esiste una gamma di possibilità intermedie, con un mix di innovazione tecnologica ed organizzativa, e formazione del personale. Quel che può fare la politica industriale è favorire questi processi: riducendo gli ostacoli burocratici, rendendo disponibili servizi per una logistica efficiente; promuovendoli esplicitamente con opportuni incentivi: tanto all'innovazione nei processi, quanto al costo del lavoro. Non destino scandalo: come ha argomentato recentemente l'economista di Harvard Dani Rodrik, il cambiamento tecnologico può, deve, essere incentivato a fornire soluzioni compatibili con una maggiore occupazione; e con la prospettiva di un altro milione e mezzo di disoccupati, in aggiunta ai 2,5 milioni che abbiamo, investire risorse pubbliche sul lavoro è una assoluta priorità. La politica industriale può fare un ulteriore, importante, passo. Può favorire esplicitamente la localizzazione di queste attività nel Centro-Sud, ovvero l'area fortunatamente meno investita dal contagio. Attrezzando con regole e servizi aree specifiche, ad esempio le Zone Economiche Speciali che già esistono, con collegamenti già buoni sia con l'interno sia via mare (la rilocalizzazione può essere anche parziale e integrare semilavorati che arrivano dall'estero). Incrociando questi obiettivi con la costruzione dei programmi per i fondi strutturali dell'immediato futuro, con provviste finanziarie dedicate. Far ricrescere imprese e lavoro al Sud fa benissimo all'intero Paese: stimola forniture di macchinari e attrezzature dal Nord, può far crescere la competitività d'insieme delle filiere, mette all'opera saperi e competenze, riduce le necessità di interventi di emergenza. Accresce quella domanda interna che rischia di deprimersi: e su cui (sempre in una logica di apertura, non protezionista) l'Italia dovrà fare maggiormente conto nei prossimi anni. Come dopo le devastazioni del dopoguerra, si riparte solo con un grande cambiamento politico-culturale: ricreando uno spirito pubblico nazionale coeso, e indirizzando quante più risorse possibile agli investimenti. In questa ottica, il Sud si trasfigura, rispetto alle bolse rappresentazioni correnti: non una palla al piede, ma una risorsa da valorizzare per accrescere il benessere di tutti gli Italiani. Non è retorica. È politica economica.
© RIPRODUZIONE RISERVATA