Ma la Capitale non è merce di scambio

Ma la Capitale non è merce di scambio

di Mario Ajello
Sabato 1 Giugno 2019, 07:50 - Ultimo agg. 10:48
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Enrico di Navarra («Parigi val bene una messa») si convertì al cattolicesimo pur di salire al trono di Francia al tempo della guerra politico-religiosa dei tre Enrichi. Il paragone è sproporzionato, lo sappiamo bene.

Ma se Luigi Di Maio, per far sopravvivere il reame 5 stelle al governo, si converte al nordismo anti-romano della Lega forse procura un giovamento (di scarso respiro) al suo partito e di sicuro provoca un danno (di lunga portata) all'Italia e all'interesse nazionale. Di cui Roma, cioè la Capitale, è espressione, sintesi e simbolo di una continuità plurisecolare che nessun revanscismo padano, che ora ha scelto di chiamarsi autonomia differenziata con un gioco di parole tattico, dovrebbe mettere in dubbio.

Il fatto è che M5S sarebbe tentato di non combattere la battaglia per il Salva-Roma, in cambio di ricompense politiche sui altri dossier da parte del dominus leghista. Prova di cinismo? Semmai la conferma di scarsa lucidità. Quella che rischia di spingere il movimento grillino a un baratto, la svendita di Roma, pro domo sua. Ma prima delle ragioni di partito, c'è la Ragion di Stato e tutelare la Capitale rientra in un dovere patriottico che dovrebbe primeggiare su ogni altro tipo di interesse particolare e partigiano.


Si potrebbe dire, e già questo sarebbe un paradosso ma anche un segno della situazione difficilissima che sta vivendo quel movimento dopo il tracollo elettorale, che M5S tra la Raggi e Salvini sia tentata di scegliere quest'ultimo, offrendogli lo scalpo di Roma. E guarda caso, sul Salva-Roma il premier Conte non ha dato rassicurazioni al sindaco. Qui però non può e non deve valere l'idea sbagliata che aiutare Roma sia aiutare chi ora la governa (male), significa invece avere la consapevolezza che un Paese non si tiene in piedi se si cerca di indebolirne il pilastro fondamentale. O se si conduce quella operazione minimizzante che Salvini, a dispetto dei tanti consensi che ha ottenuto nella Capitale, va praticando da tempo con lo slogan «o tutti o nessuno». Che vuol dire, senza senso della misura e consapevolezza della vicenda italiana e universale, equiparare Roma agli altri comuni e pretendere che l'Urbe valga quanto Alessandria o Catania - l'esempio è stato fatto dal vicepremier - e non è meritevole di attenzione particolare, di uno sforzo in più, di quello status speciale che sta scritto nella sua storia. E guai a svenderla. Perché il baratto su Roma sarebbe una forma inaccettabile di primitivismo, ai danni della città che ha inventato il mondo moderno.
 
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