Roma, la Capitale insolita e mezza vuota che brucia di bellezza

Roma, la Capitale insolita e mezza vuota che brucia di bellezza

di Mario Ajello
Martedì 3 Marzo 2020, 07:44 - Ultimo agg. 18:06
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Roma metafisica, Roma surreale. No, l'Urbe non sarà mai Wuhan. Non esageriamo. Glielo impedisce la sua bellezza, non glielo consente la sua storia.
Semmai viene alla mente, girando, guardando, mentre sale il numero dei romani alle prese con il coronavirus e l'angoscia ruba il campo alla fiducia, Mistero e melanconia di una strada, il quadro di Giorgio De Chirico del 1914, in cui si vede una città priva di manifestazioni di vita, immersa nell'ombra lunga del suo vuoto.

Sarà che in queste ore piove e c'è vento, il che aggrava il mistero e la melanconia legati al morbo, ma vedere Piazza del Popolo attraversata quasi di corsa, come se ci fosse il coprifuoco, da sparuti passanti che fuggono a casa perché la quarantena psicologica è diventata il vero paesaggio lascia un senso di straniamento che si unisce a quello provocato dai negozi del tridente mezzi vuoti; dei tavolini dei ristoranti che invadevano le strade fino all'altro giorno tra Campo de' fiori e il resto della zona della movida ma ora spiccano al loro posto i musi lunghi dei ristoratori (chi si accingeva a prendere lavoratori stagionali ha interrotto la selezione); di Ponte Milvio che è ridiventato bello come un tempo ma per sottrazione di voci e di drink e così non va; di incassi dei negozi più che dimezzati; dei cinema che - miracolo! - a gennaio marciavano alla grande e adesso partiscono il contro-miracolo di un fatturato meno 70 per cento, mentre si arricchiscono solo i supermercati.

E si potrebbe continuare a lungo nel racconto del vuoto, in cui gli studenti di Roma Tre che da Prati si avviano a Ostiense riempiono le chat di messaggi che dovrebbero essere di entusiasmo e invece trasudano inquietudine: Di solito mi ci volevano 40 minuti, oggi sono arrivata all'università in meno di un quarto d'ora.... Ma muoversi, sia pure più velocemente, in una città spogliata della sua frenesia e dove addirittura si trovano i taxi nonostante la pioggia, crea un senso di irrealtà nel quale ci si può aspettare di tutto. Finirà? Ma quando finirà?. Se lo chiedono in tanti.

Vivere assediati dal morbo significa pensare a tutte le terribili conseguenze economiche, per esempio, che il morbo sta producendo. Una Capitale che ha bisogno di produrre e di creare e che si vede impedita nel suo slancio diventa una delle città invisibili di Italo Calvino, un luogo improvvisamente estraneo che non merita affatto di esserlo ma la paura, si sa, non guarda in faccia nessuno, neppure la cosa più bella che c'è e che è Roma. La quale non ha perduto naturalmente il suo fascino ma non è più quello della vivacità e della forza che ha affascinato i viaggiatori del Grand Tour e i loro odierni discendenti - ormai per lo più costretti a disdire le prenotazioni dei b&b per marzo e poi si vedrà - ma si ritrova semmai in una descrizione, sempre considerata eccentrica e minoritaria ma mai risultata vera come in queste ore, come quella di Chateaubriand. Che parlava delle pallide solitudini di Roma, luogo spopolato di strade senza abitanti, con recinti, piazze, giardini dove non passa nessuno, monasteri dove non si sente più la voce dei cenobiti, chiostri deserti come i portici del Colosseo. Ora mi s'è immalinconita Monti, si duole il macellaio dietro a via del Serpenti.

Mentre a via Veneto, al Mise, si festeggia perché gli impiegati sono tutti risultati negativi ai test del Coronavirus, introdotti anche in altri palazzi di potere. Controlli dappertutto, a cui i romani si sottopongono diligentemente - non esiste più il che me frega, che te frega, l'espressione che secondo Federico Fellini meglio descrive il carattere della città - e capita d'imbattersi in scene come questa all'ingresso della Fao. Scusi, devo misurarle la temperatura, dice l'addetto. La macchinetta viene avvicinata alla tempia e segue sentenza: C'ha 34 e 4. Ma davvero? Ma non è una temperatura da morto?.

Non c'è niente da ridere. La situazione è spettrale e non c'è nessuno che non la prende sul serio. Non solo pensando ai destini propri ma anche a quelli collettivi di una metropoli che rischia di pagare caro e di rialzarsi a fatica - più povera, più triste, come se non bastasse tutto ciò che le sta capitando in questi anni - da questa umanissima soggezione al morbo che avanza. E che sta spargendo disperazione tra i tour operator, mentre i turisti sono pochi quanto gli incassi delle trattorie e con la mascherina. La sprenotazione negli hotel e in tutto l'indotto della convegnistica apre un altro squarcio sulla città sospesa. Quella in cui si parte e si arriva di meno, perché ci si sente carichi di un fardello interiore e non si sa quanto ancora toccherà portarlo.

Magari diventerà più pesante? Forse il picco del virus è arrivato al suo massimo e preghiamo che smetta? Per pregare, c'è San Luigi dei francesi che riapre domani. O altre chiese, tante, ma i parroci che in altri tempi e con altri contagi avrebbero avuto super-lavoro registrano a loro volta scarse presenze - e il rito della confessione e dello scambio del segno di pace sono stati interdetti - nei luoghi di culto. Perché il bacillo potrebbe annidarsi ovunque ed è meglio non sfidarlo. E così è saltato il vernissage party (ma solo quello, apertura confermata) della mostra più importante dell'anno in Italia, quella per il cinquecentenario di Raffaello, che a livello globale sarà capace di rappresentare il rilancio dell'orgoglio di una nazione ma intanto tocca aspettare. E viene cancellato anche l'evento di apertura dell'esposizione mondiale del cinquecentesco Orazio Borgianni a Palazzo Barberini, il quale a suo tempo morì di depressione. Ma questa è una grande città a cui la depressione è costitutivamente inibita. E che ha l'apertura nel suo dna. Cancellarlo è impossibile, ma che sofferenza.
 
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