di Mario Ajello
Mercoledì 26 Febbraio 2020, 00:21 - Ultimo agg. 01:05
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Dovrebbero entrare in campo i Responsabili. Non quelli improbabili del Senato. Ma una truppa di ghostbusters.
Di assennati e ponderati cacciatori di fantasmi che acchiappano il demone del catastrofismo che sta spopolando, in nome del coronavirus, molto più del coronavirus stesso. Il catastrofismo di chi, come nell’assalto ai forni del ‘600, svuota i supermercati per chiudersi in casa in attesa dell’Apocalisse. O quello che spinge - altro che andare in ufficio, dovrei salire sull’arca di Noé! - con motivazioni reali ma spesso anche no a disertare i compiti, a marinare gli obblighi, a prendersi una pausa. E si mescolano giusti allarmi e cattivi comportamenti, voglia di verità e nevrosi da iperbole, stato d’eccezione e sterile eccitazione in questi giorni della Grande Paura che rappresentano il meglio e il peggio dell’Italia. Tra scene da economia di guerra e da coprifuoco e tentazione di costruirsi un proprio lazzaretto fatto anche di dicerie (ma Diceria dell’untore purtroppo nessuno la legge più e gioverebbe).

Allarmismo collettivo - dovuto anche a deficit di comunicazione certa e di barra dritta da parte del governo - e italianissima teatralità, fascino indiscreto della paranoia più commedia dell’arte: eccola l’Italia. Non che l’epidemia in corso rappresenti qualcosa di leggero e da minimizzare. Tutt’altro. Va preso profondamente sul serio questo morbo e aggredito con la massima determinazione e lucidità. E proprio per questo serve di liberarsi in fretta di quel surplus di moderno (ma neanche tanto) millenarismo che opportunamente uno scienziato come si deve, Walter Ricciardi, ha stigmatizzato così in linea anche con l’Istituto superiore di sanità : “Dobbiamo ridimensionare l’allarme”. Non significa sottovalutarlo, vuol dire depurarlo di quel catastrofismo che fa comodo un po’ a tutti. Funziona come un habitat pieno di miasmi e umori sociali non sempre corretti - “Oggi non abbiamo il cameriere, è rimasto a casa per paura del coronavirus”, questo il refrain in svariati bar romani. “Speriamo che la situazione peggiori così la scuola chiude”: irricevibile dichiarazione d’insegnante - ma funge soprattutto da alibi alla politica per fuggire dalla realtà di fatto e per poter giocare con i fantasmi rinfacciandoseli a vicenda. Quanto è più alta l’approssimazione catastrofista - sostitutiva di razionalità e capacità d’infondere fiducia - tanto più è facile gettare in tribuna la palla della rissa tra Conte e i governatori leghisti.

Ed è più semplice riempire il vuoto dell’iperbole con l’accusa di “sciacalli” da parte del premier e vedersi rispondere con altre offese (“incapace”), mentre continua lo spettacolino non edificante tra il premier e Salvini: “Telefonami tu”, “No, tu”. Alla fine si sono sentiti. Ma non è nato affatto un asse istituzionale e tutto somiglia a una simulazione di dialogo che serve al premier per lucidare il suo ruolo di top player - la sua eventuale costruzione di una leadership nazional-popolare ed elettorale ha nell’emergenza virus un passaggio cruciale - e serve a Salvini a rientrare tatticamente nel gioco largo della responsabilità nazionale in cui Berlusconi e Meloni si sono inseriti da subito.

Resta il fatto che il catastrofismo è de-responsabilizzazione a tutti i livelli. È il lievito delle divisioni inutili. E non produce buona politica ma soltanto politique d’abord. Serve a continuare nelle pratiche di sempre, tipiche del Palazzo: in assenza di un quadro chiaro dei problemi da affrontare, la via più facile da imboccare è quella dell’arabesco delle polemiche e della contesa personale. Per cui, ad esempio, Conte è entrato subito in modalità sto facendo benissimo e ogni critica viene tacciata di lesa maestà o derubricata nella categoria non disturbate il manovratore.

Ponderare e ridimensionare è quanto una comunità nazionale adulta e laica deve pretendere da se stessa. E il motto neo-patriottico potrebbe essere: vigilanza sì, catastrofismo no. Perché quest’ultimo, un morbo nel morbo, è quello in cui vale tutto e il contrario di tutto e l’ “infotemia” - le notizie non verificate - su questo terreno da psicosi collettiva finisce per prosperare. Facendo impazzare il senso di non avere scampo da una minaccia inevitabile, dotata di soverchiante superiorità e animata da una furia imprevedibile e irriconoscibile. I danni del catastrofismo - che suscita ansia sociale ma anche attrazione pubblica e convenienza politica sono insomma d’ogni ordine e grado. E tra chi sostiene che il coronavirus “è soltanto un’influenza” (Maria Rita Gismondo, capo dei virologi dell’ospedale Sacco di Milano) e chi dice il contrario e ne enfatizza la micidialità (l’ubiquo Buroni, che non vuole sentire altre ragioni che quelle della catastrofe) la gente d’istinto sceglie il secondo. Ma urge un vaccino, oltre che contro il virus cinese, contro l’enfasi da finis Italiae.
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