di Mario Ajello
Giovedì 15 Agosto 2019, 00:07
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Un anno intero, quello dalla tragedia del ponte Morandi e dell’avvio complicatissimo della ricostruzione, condensato in una scena. Riassunto in un singolo episodio, impressionante, che può valere da Bignami del metodo del governo usato dai giallo-verdi ormai in uscita. Ossia la richiesta dei familiari delle vittime di allontanare dalla cerimonia i vertici di Autostrade. Il premier Conte esegue. E Salvini gli dà, populisticamente, ragione: «I sentimenti della gente vanno sempre rispettati». 

E così è scattato una sorta di crucifige voluto, sia pure in maniera composta e non urlata, a furor di popolo. S’è avuta un’umiliazione pubblica e una condanna preventiva, quando ancora la giustizia - a proposito del crollo del ponte - deve fare il suo corso. 

Senza calcolare, da parte del premier, che la politica non si rinobilita cavalcando le pulsioni popolari, pur originate in questo caso da un comprensibilissimo strazio, dall’indelebile sofferenza del lutto, ma facendo un’opera di verità e di giustizia, al netto di furori giacobini, di pose demagogiche o di revanscismi anti-capitalistici, che non dovrebbero appartenere a chi governa. Del resto fin dall’inizio un anno fa, e ieri s’è avuta la conferma dell’impostazione originaria, l’approccio giallo-verde a questa tragedia italiana non è stato quello di chi cerca davvero di suturare la ferite. 

L’approccio non è stato quello di chi dà risposte improntate all’efficienza e soluzioni vere per la ricostruzione. Ma quello di soffiare sul fuoco dei dolori e di amplificarli, rinunciando al ruolo di classe dirigente. 
Per applicare invece alla lettera quella che, in un recente splendido saggio (intitolato “A furor di popolo. La giustizia rivendicativa gialloverde”, edizioni Donzelli), l’autore Ennio Amodio, professore emerito di Procedura penale, definisce uno dei più gravi torti ai danni della cultura illuministica. Quello per cui l’indagato diventa un nemico del popolo, e la spada della legge è consegnata nelle mani impazienti delle vittime.

Non è stata affatto una bella scena, insomma, quella che si è vista a Genova, tra le macerie del ponte già evacuate e le macerie del governo ancora fumanti ma ancora da rimuovere o da riciclare. Si poteva rispondere in maniera costruttiva alle sofferenze dei cittadini, facendo diventare il loro dolore lievito di una nuova politica pragmatica e lungimirante e improntata a un senso di giustizia profondo e non declamatorio, e invece ci si è affannati più che altro a offrire un capro espiatorio all’opinione pubblica

Oltretutto senza calcolare che, sul piano della rincorsa demagogica, si resta sempre indietro. Infatti nella cerimonia s’è sentito il gelo da parte dei parenti delle vittime nei confronti dei ministri presenti (Toninelli quasi nascosto) e soltanto il sindaco Bucci e il governatore Toti sono stati applauditi. Oltre al presidente Mattarella e se non fosse stato per lui - e per il suo riconosciuto ruolo di chi cuce e ricuce il rapporto tra il popolo e lo Stato, in un mix di ascolto vero e autentica rappresentazione istituzionale del sentimento comune - si sarebbero potute verificare anche contestazioni contro ciò che resta del Palazzo governativo.

L’espulsione dei manager racconta insomma della politica che fa da megafono e rinuncia al proprio compito di mediazione tra istanze popolari e responsabilità di governo. Ed è la certificazione di come non si sia riusciti a garantire un percorso da Paese normale per la ricostruzione, nel quale chi ha sbagliato deve risarcire e chi è stato vittima dev’essere risarcito. Ma senza spirito di vendetta. Non applicando la logica del giudizio sommario a reti unificate, come è accaduto nel capannone di Genova.

E ha fatto bene il sindaco Bucci a distanziarsi dall’ “avvocato del popolo” dicendo parole importanti: «Oggi dev’essere il giorno della tolleranza, dell’unione tra chi ha sbagliato e chi ha subito». Così si tiene insieme una società. E viceversa, ieri è stato il giorno della scorciatoia giustizialista per placare l’ira di un momento. Fomentata fin da un minuto dopo la tragedia del ponte Morandi, che è diventata strumento per attirare facili consensi. 
E non è un caso che il governo vada a morire - o almeno così pare - sul luogo dove c’era il ponte. Perché nel crollo di quel viadotto e in ciò che è seguito c’è tutta la fragilità di una politica indisponibile alle vere assunzioni di responsabilità. Compresa quella di non lisciare il pelo alla presunta volontà popolare e di saperla invece filtrare e tradurre in decisioni, opere, fatti. Non può essere che questo l’unico ponte tra passato e futuro, il solo viadotto perfetto che non schiaccerà mai l’Italia.
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