di Paolo Balduzzi
Mercoledì 10 Luglio 2019, 00:05
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Quanti sono i fronti che dividono le due anime della maggioranza di governo? Tanti, forse troppi. Non che si sia così ingenui da pensare che divisioni, in maggioranze precedenti, non ci siano mai state; né tanto meno che a volte questi scontri siano soltanto strumentali ad altro (un consenso elettorale, una concessione su altri tavoli, etc.). Del resto, che Lega e Movimento Cinque Stelle fossero distanti lo si è sempre saputo; anzi, basta ricordare come pochissimi avrebbero scommesso non solo su un governo che durasse più di un anno, ma anche solo che tale governo riuscisse a formarsi. La cosa grave è che questa dialettica, questa rincorsa ai propri temi elettorali più forti, non porta a un eccesso di attività, come accadeva abitualmente e soprattutto nella cosiddetta prima Repubblica. Oggi le spese sono sottoposte a precisi vincoli di bilancio, l’equilibrio stesso dei saldi è parte della Costituzione: gli screzi tra partiti di una maggioranza non possono più essere semplicemente finanziati con maggiore spesa pubblica, accontentando un po’ tutti. Al contrario: questa dialettica ha portato a una impasse che forse va anche bene ai membri del governo, impegnati a ricostruire equilibri e rapporti di forza dopo le elezioni europee, ma che non fa affatto bene al Paese.

In particolare, risulta difficile da capire l’atteggiamento del Movimento Cinque Stelle, peraltro ancora primo azionista di questa maggioranza, nei confronti delle grandi aziende. Risulta difficile capirlo perché l’obiettivo di ogni governo dovrebbe essere quello di avere a cuore il benessere dei propri cittadini, di garantire le condizioni che permettono una crescita economica sostenuta e costante, di perseguire la riduzione delle disuguaglianze, sociali ed economiche, e di provare a diminuire l’elevato carico fiscale. Certo, si può ribattere, e nemmeno troppo a torto, che parte dei problemi di questo paese, quali l’elevato debito pubblico, la dimensione spropositata del sistema pensionistico, lo squilibrio del sistema tributario la si debba proprio all’incapacità dello Stato, già a partire dagli anni del boom economico, di interagire in maniera efficace e autoritaria con le grandi aziende. Ciò fa paura (a volte invidia) a chiunque sia escluso dalle leve del potere, naturalmente.

E fintanto che si è all’opposizione la retorica anti potere – politico ed economico – ha sempre una grande presa sugli elettori e sulle fasce di popolazione più deboli e meno tutelate. Ma ora il Movimento Cinque Stelle, è inutile e miope negarlo, è parte stessa di questo sistema di potere; anzi, di più: come partito leader in Parlamento e nel Governo, il Movimento controlla la legge stessa, regolamenta i rapporti economici, può determinare e influenzare la forza di questi poteri economici.
Prendersela quindi con i grandi gruppi industriali dà solo prova di una evidente incapacità di usare il proprio potere politico. Gli esempi di questo rapporto malato sono numerosi, benché questo governo sia in carica da solo un anno. Basterà ricordare uno dei primi, quello con Atlantia (Autostrade per l’Italia), e uno degli ultimi, quello con Arcelor Mittal (Ilva). E forse aggiungere che anche nei confronti delle grandi opere (su tutte, la Tav), la posizione del Movimento è ostile, se non addirittura contraria. Le conseguenze di tutto ciò sono innanzitutto grottesche. Dopo un anno, nessuno è ancora in grado di dire se la revoca della concessione ad Autostrade sia possibile oppure no. Nel frattempo, si mette a rischio l’intervento di Atlantia stessa per il salvataggio di Alitalia. Mentre sul fronte Ilva il governo sembra non aver ben chiaro oggi ciò che lo stesso governo ha stabilito nel contratto modificato lo scorso 14 settembre 2018. Questa avversione è ancora più evidente a causa dell’opposto orientamento dell’altro partner di Governo, vale a dire la Lega. Forse perché tradizionalmente radicata nelle regioni più ricche, benché spesso abbia raccolto maggiori consensi tra le piccole imprese, al mondo della Lega è chiaro che l’elettore è pur disposto a rinunciare a qualcosa pur di avere sul proprio territorio soggetti che sappiano trainare l’economia, che possano assumere migliaia di persone e dare un reddito a migliaia di famiglie, che creino attività economica indotta sul territorio, che paghino imposte forse non così rilevanti allo Stato ma che di fatto arricchiscono gli altrimenti magri bilanci degli enti locali; e che infine riescano anche ad attirare, perché no?, investimenti da attrarre dall’estero. Certo, questi benefici non devono far dimenticare gli aspetti negativi: ci sono questioni ambientali ed etiche da affrontare e risolvere, ci sono diritti di lavoratori da garantire. Ma esattamente questo è il compito dello Stato. Il governo – o parte di esso – dovrebbe rinunciare a vedere nemici dove non esistono; piuttosto, sfrutti dimensioni, know how, tecnologia e investimenti dei grandi gruppi industriali per garantire al paese quella crescita economica di cui ha urgentemente bisogno.
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