di Paolo Balduzzi
Giovedì 1 Agosto 2019, 00:15 - Ultimo agg. 10:31
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Era l’estate del 2011, esattamente otto anni fa, quando tutti gli italiani cominciarono a familiarizzare, loro malgrado, con la parola “spread”. Questo termine, di per sé neutrale e che significa “differenza”, ci ha accompagnati in questi anni con fasi di alterne fortune. E proprio lo spread potrebbe tornare ad essere, nel 2019, il nuovo tormentone estivo, per usare un termine legato alla musica commerciale. In questo caso, tuttavia, non sarebbe collegato al differenziale tra rendimenti di titoli di debito (o non ancora, in attesa di vedere come andrà l’iter della prossima legge di bilancio); bensì, sarebbe collegato al differenziale tra i tassi di crescita economica dei Paesi europei.

L’Istat conferma le pessime notizie che si susseguono ormai dall’inizio dell’anno: l’Italia ristagna, la crescita è nulla. Galleggiamo, insomma, senza riuscire a cavalcare nessuna delle onde che ci sono passate vicino in questi anni e anzi rischiando di sprofondare, da un momento all’altro. Siamo il fanalino di coda in Europa, tanto per cambiare. La Germania, una volta tanto, ci fa compagnia: ma è una magra, magrissima consolazione. Per diversi motivi. Il primo è che tutti gli altri Paesi continuano a crescere a ritmi sostenuti o comunque positivi. In secondo luogo, perché i motivi del rallentamento tedesco sono probabilmente più esterni che interni e legati al rallentamento dell’economia mondiale che frena le esportazioni.

Per l’Italia, che pure soffre dei malanni tipici delle economie legate all’export, questa però non appare l’unica causa. L’Istat, infatti, certifica che anche la domanda interna è ferma. Uno smacco per questo governo, che dei provvedimenti di spesa corrente proprio a sostegno della domanda interna ha fatto la sua cifra. Evidentemente, non bastano le fumose promesse di diminuzione dell’imposta sui redditi (flat tax); né le risorse destinate al reddito di cittadinanza, provvedimento sacrosanto in linea di principio ma architettato troppo frettolosamente. Per non parlare di “quota 100”, la possibilità di anticipo pensionistico, che, proprio per sua natura, diminuisce il reddito del lavoratore, oltre a scassare i conti pubblici futuri. Non è un caso, infatti, se tale provvedimento sembri interessare maggiormente alcune grandi aziende, che in esso intravedono la possibilità di scaricare le crisi aziendali sul bilancio pubblico attraverso dei prepensionamenti, che ai singoli lavoratori. E l’obiettivo di sostituire i lavoratori pensionati con forza lavoro giovane, già ampiamente criticato anche da queste colonne, si conferma del tutto irrealistico. Certo, sempre l’Istat in questi giorni conferma il record positivo del tasso di occupazione (59%, la quota di occupati tra le persone in età da lavoro) e quello negativo della disoccupazione, ai minimi dal 2012 (la quota di popolazione in cerca di lavoro tra coloro che lo cercano e coloro che già sono occupati).

Come si conciliano questi due scenari, apparentemente opposti? Sempre i dati Istat indicano che purtroppo sono in aumento gli inattivi: vale a dire, molte persone smettono di cercare lavoro. E questo ha paradossalmente effetti positivi sulla misura del tasso di disoccupazione: in altri termini, le persone non sono più disoccupate non perché hanno trovato un lavoro, ma perché non lo cercano più. E, ancora, nonostante questi “record”, siamo sempre tra i peggiori in Europa, sia come tasso di occupazione sia come tasso di disoccupazione. Per non parlare degli squilibri generazionali: anche nel mondo del lavoro persiste la spaccatura tra generazioni più anziane (rappresentate, occupate e protette) e generazioni più giovani (meno occupate e meno protette, benché spesso più istruite). In poche parole: il timore è che questo dato positivo sull’occupazione sia principalmente interpretabile come dividendo da periodi positivi passati che come biglietto da visita di questo Governo. 

Come uscire quindi da questa situazione? Ci sono diverse possibilità per evitare un autunno di fuoco per i conti pubblici. Alcune avrebbero effetti nel breve/medio periodo e altre che li avrebbero solo nel lungo. Tra quelle del primo caso possiamo considerare la necessità di riallocare la spesa pubblica prediligendo investimenti e opere pubbliche strategiche a discapito di spese elettorali correnti, utili solo nel brevissimo periodo e solo a chi detiene il potere di spesa, ma non certo al Paese. Certo, prevedere investimenti non è una condizione sufficiente affinché il Paese cresca. Innanzitutto perché gli investimenti devono essere davvero utili e servire al Paese, a migliorare la sua capacità produttiva, il suo sistema di trasporti e di collegamenti, e così via. In secondo luogo, perché questi soldi devono effettivamente essere spesi, mentre storicamente solo una parte delle risorse impegnate viene utilizzata. Di qui, dunque, la necessità di interventi anche di più lungo periodo: riforma della burocrazia statale, eccellente in alcuni campi ma decisamente carente in altri; interventi nel campo della giustizia civile, per dare certezza del diritto a tutti coloro che vogliono investire nel Paese e provare a creare occupazione; interventi nel campo dell’istruzione, per ampliare la quota di popolazione con una laurea e soprattutto con le conoscenze per affrontare al meglio un contesto economico e sociale in perenne cambiamento; interventi per valorizzare il capitale umano già presente, per evitare che emigri per sempre. Senza dimenticare le conseguenze che un debito pubblico elevato e una popolazione sempre più anziana avranno sullo stato sociale come lo conosciamo oggi. Si tratta di interventi spesso poco popolari e quindi elettoralmente pericolosi: ci sarà mai, nel nostro Paese, un governo abbastanza coraggioso per provare a cambiare davvero il Paese, non solo a parole? 
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