Massimo Martinelli

Ideologia e pressioni/Il prezzo che pagheremo per due giorni di scuola

di Massimo Martinelli
Venerdì 2 Aprile 2021, 00:11 - Ultimo agg. 3 Aprile, 09:20
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Ci sarà un prezzo da pagare che non è stato messo nel conto. L’auspicio è che sia il più lieve possibile, anche se il mondo scientifico, praticamente all’unanimità, scuote la testa. Perché la decisione di consentire la riapertura delle scuole per due o tre giorni, a seconda delle regioni, alla vigilia di una festa familiare come la Pasqua in cui sono prevedibili (e inevitabili) situazioni di promiscuità, è apparsa incomprensibile.

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Per quale motivo esporre i bambini al pericolo di contagio in aula con il rischio di trasformarli in piccoli inconsapevoli untori dei nonni che abbracceranno nei giorni di Pasqua e Pasquetta? Perché mettere in preventivo un prezzo in termini di vite umane in nome di un principio ideologico?

Patrizio Bianchi, ministro dell’Istruzione, lo ha rivendicato fieramente in tv, ai microfoni di Maria Latella su Skytg24: «L’idea è che si ricomincia, si ricomincia dalla scuola, la scuola non è l’ultima ma la prima a riaprire.

Questo è il segnale che dovevamo dare e che abbiamo dato in maniera chiara e limpida». E il sospetto è che dietro questi princìpi ci sia il cedimento della politica alle pressioni del popolo delle famiglie, indubitabilmente in affanno nel gestire la prole e gli orari di ufficio, la logistica della dad e gli spazi ristretti in casa.

Qualunque siano state le motivazioni di una scelta che a molti virologi è apparsa davvero poco ponderata, il risultato è stato ancora una volta quello di dividere l’Italia in due (o più) settori. Da una parte le regioni in zona rossa che hanno mantenuto le scuole chiuse prima di Pasqua, ad esempio la Campania. Dall’altra le regioni che sono diventate arancioni (il Lazio da martedì) e quelle che lo erano già, che per decreto avrebbero dovuto aprire le scuole e che invece si sono divise. Così i bambini sono andati a scuola in Sardegna, in Umbria e in Sicilia (anche se 22 comuni dell’isola hanno deciso di chiudere). Mentre Abruzzo, Molise e Basilicata, benché arancioni, hanno tenuto le scuole chiuse.

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A stridere di più, in questo variopinto scenario regionale, è il caso Lazio, unica regione ad essere diventata arancione con un giorno di ritardo, cioè martedì 30 marzo e non lunedì 29 come le altre regioni che hanno cambiato colore.

Nel Lazio si è tornati a scuola per soli due giorni, perdipiù nella settimana che lo stesso assessore regionale D’Amato - in un’intervista al Messaggero di ieri - ha definito la più pericolosa dal punto di vista del contagio. Viene da chiedersi allora perché lui stesso, oppure il governatore Zingaretti, non abbiano pensato di fare quello che altri colleghi, in altre regioni, hanno fatto: cioè esercitare il potere di adottare provvedimenti anti-Covid più severi rispetto a quelli del governo. Potevano chiuderle loro, le scuole.

Perché due giorni di lezione, dopo un’assenza prolungata e prima delle vacanze di Pasqua non hanno alcun valore dal punto di vista didattico. E il vero recupero, se dovrà esserci, non potrà che arrivare con un prolungamento dell’anno scolastico oltre giugno. In questo caso, le conseguenze da affrontare saranno i malumori degli insegnanti. Un prezzo oggettivamente più lieve di quello che si è preferito rischiare oggi, che potrebbe essere anche in termini di vite umane.

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