Occasioni mancate/I difetti della politica del partito preso

Occasioni mancate/I difetti della politica del partito preso

di Alessandro Campi
Lunedì 8 Febbraio 2021, 00:36 - Ultimo agg. 9 Febbraio, 00:19
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La scomparsa delle ideologie ci ha lasciati orfani di tante cose: le grandi passioni che duravano tutta una vita, il senso protettivo della comunità militante, la difesa ortodossa e intransigente delle proprie idee anche quando si scopriva che erano sbagliate, un’esistenza che si voleva improntata al rigore, alla fedeltà e all’intransigenza, i grandi partiti di massa che erano delle accoglienti case-chiese.


Ma bisogna riconoscere che la fine di quel mondo, al quale molti guardano con nostalgia dimenticando i guasti terribili che ha causato, politicamente ha avuto anche i suoi vantaggi. Ad esempio, la possibilità di cambiare idea, quando conviene ma soprattutto quando è necessario, senza doversi sottoporre – come capitava nel passato – ad abiure umilianti o a processi popolari nelle piazze. 


Quello dice: “Non farò mai un’alleanza col partito X”. E il giorno dopo ci fa insieme un governo. Quell’altro si batte per una vita contro l’Europa e all’improvviso te lo ritrovi europeista convinto. Quell’altro ancora promette oggi una cosa diversa da quella che prometteva ieri. Cosa c’è di vantaggioso – si dirà – in una simile prassi trasformistica, a dir poco riprovevole sul piano morale? Cosa farsene di una politica divenuta all’apparenza tanto cinica e spregiudicata, priva ormai di qualunque bussola normativa, dove tutto si può dire e (quasi) tutto si può fare?

In realtà, simili domande si possono facilmente ribaltare. Cosa farsene di una politica che predica fedeltà a valori spesso superati dalla storia o a ideologie nelle quali più nessuno crede, che si limita a sventolare nobili ideali e formule roboanti o che spaccia per coerenza la propria paura di mettersi in gioco e di misurarsi con un mondo – quello odierno – in vorticosa trasformazione?

A cosa serve una politica del partito preso, che procede per automatismi mentali, le cui mosse si possono prevedere in anticipo, convinta che sia la realtà a doversi conformare alle proprie scelte e non il contrario? 


D’altro canto quale linearità nei comportamenti o fedeltà alla parola data si può oggi chiedere ai politici quando i primi che cambiano continuamente idee, gusti, preferenze, voto e simpatie sono diventati i loro elettori? Se biasimiamo i primi per i loro eccessi di incoerenza perché non prendersela anche con l’umoralità divenuta ormai patologica dei secondi? Se la politica è divenuta volatile e incostante forse è perché incostanti e volatili siamo divenuti tutti noi. Non solo, ma se cambiare opinione negli individui è considerata una virtù, perché nei partiti (individui collettivi) dovrebbe rappresentare un vizio?


E dunque – per non perdersi in troppe chiacchiere e venire al sodo – bene ha fatto la Lega salvinina a promettere il proprio sostegno al nascente governo Draghi superando le sue tradizionali invettive contro l’Europa dei tecnocrati e dei banchieri.

Male ha fatto Giorgia Meloni a sottrarsi all’invito del Quirinale per un malinteso senso della propria purezza e alterità politica. Bene ha fatto il M5S a mettere la sordina, in cambio della voglia di governare (che è l’unico modo per cambiare almeno un poco il mondo), alle fantasie complottiste sui poteri forti e alle pulsioni anti-sistema delle origini. E male farebbe il Partito democratico se, in cambio del promesso sostegno a Draghi, decidesse di porre veti di natura ideologica nei confronti del “nemico” sovranista che nel frattempo ha smesso di essere tale.


I politici possono cambiare, anche radicalmente, le proprie posizioni per diverse ragioni. Per inseguire le pulsioni collettive in cerca di un facile consenso, come capita sempre più spesso nelle democrazie contemporanee, dominate dalle emozioni più che dalle opinioni. Per opportunismo o calcolo personale, come è sempre capitato nella storia. Infine, per necessità, quando la contingenza o un cambio improvviso di scenario lo richiede. 
Quest’ultimo è esattamente il caso italiano dopo la caduta del governo Conte. Con il Paese alle prese con una drammatica emergenza (sanitaria, economica e sociale) è un bene avere partiti che accettano di modificare o smussare le proprie posizioni. Sarebbe strano il contrario: partiti che restano fedeli a queste ultime senza considerare quel che sta accadendo intorno a loro. Un governo di unità nazionale, in questo momento storico, non è la fine della politica, come qualcuno sostiene. Paradossalmente è un atto di responsabilità della politica, che si dimostra capace di adattarsi, quando serve, alla realtà che cambia, senza farsi condizionare dai pregiudizi. 


C’è poi una convenienza tattica in quel che sta accadendo. A suo tempo abbiamo lodato la svolta europeista e pragmatica del M5S, per quanto brusca e inattesa. Perché quella odierna della Lega, altrettanto salutare ma nemmeno tanto sorprendente per un partito che ha uno storico consenso nel mondo delle imprese e delle professioni, dovrebbe suscitare mugugni? Salvini lo ha fatto solo per opportunismo, come dicono i suoi irriducibili avversari? Poco importa se dall’opportunismo di un singolo nasce un’opportunità per molti.

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