di Francesco Grillo
Lunedì 3 Agosto 2020, 00:10
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Fino a che livello si può indebitare uno Stato costretto a proteggere cittadini e imprese rimaste senza lavoro, prima di rischiare il fallimento e di trascinarvi un’intera economia? Come è possibile che iniezioni di liquidità nel sistema così ingenti come quelle viste dopo la crisi del 2007, non abbiano infiammato l’inflazione (contraddicendo ciò che era un postulato elementare per il premio Nobel Milton Friedman)? E perché, però, stimoli fiscali di grandissime dimensioni non sono riusciti, negli ultimi anni, a farci uscire da quella stagnazione secolare che ha preceduto la grande Depressione nella quale ci ha fatto precipitare un microscopico virus? 
Come ammette l’Economist nell’editoriale pubblicato la settimana scorsa, le risposte a queste domande ci costringeranno probabilmente a ripensare radicalmente gli stessi fondamentali di una scienza che ha dominato il dibattito pubblico negli ultimi decenni. Risposte che saranno, peraltro, rilevantissime per chiunque – governi, banchieri centrali, imprese – si troverà a dover governare non solo una crisi immaginata solo da qualche film fantastico, ma soprattutto una mutazione tecnologica che ci sta portando in acque - come ricorda, spesso, Mario Draghi - di cui non abbiamo ancora le mappe.

Anche se molti immaginano che la macroeconomia sia una categoria immanente, essa, in realtà, nasce meno di un secolo fa. Nel 1936, quando John Maynard Keynes pubblica la “Teoria Generale” come sistematizzazione intellettuale della risposta che il capitalismo americano aveva dato ad un’altra grande Depressione per salvare se stesso. E non è, dunque, strano che sia proprio la più grande crisi vissuta dal 1929 che ci costringerà a inventare una teoria nuova. 

L’intero mondo di Keynes si regge, tuttavia, su una equazione fondamentale: l’inflazione e la disoccupazione sono legate da una relazione rigidamente negativa. Se diminuisce la disoccupazione, aumenta il costo della vita. Nella storia tale certezza è entrata due volte in crisi. La prima fu negli anni settanta: in quegli anni sia la disoccupazione che l’inflazione salirono come risposta alle crisi petrolifere. La seconda, crisi più radicale di quella costruzione teorica, la stiamo vivendo adesso con livelli sia di disoccupazione che di inflazione che sono state – al contrario – entrambe strutturalmente basse nell’ultimo decennio. 

Questa è una contraddizione che la pandemia sta portando alle estreme conseguenze: nel 2020 le economie ricche hanno varato un pacchetto di stimoli di 4,2 trilioni di dollari; il deficit pubblico sarà del 16% negli Stati Uniti e nel Regno Unito, mentre nell’area euro si sta velocemente avvicinando al 10% rendendo patetico il ricordo di un patto di stabilità che è solo sospeso; in Italia, il rapporto tra debito pubblico e Pil sale in un solo anno dal 132 al 160%. L’occupazione è tenuta artificialmente alta dalle casse integrazioni pagate con il deficit pubblico; i tassi di interesse sono così bassi che gli Stati sono pagati per indebitarsi ulteriormente; l’inflazione non dà segni di vita; ma nessuno sarebbe davvero convinto di trovare - a Pandemia finita e a Next Generation Eu speso – Paesi come l’Italia ancora inchiodati al percorso fatto di non crescita che ne ha caratterizzato gli ultimi vent’anni.

È come se la medicina che la macroeconomia ha usato per influenzare lo stato di salute dei sistemi economici, fosse diventata una specie di placebo, incapace di muovere le grandezze che ne erano obiettivo. Rispetto a questa situazione economisti e governi occidentali oscillano tra sensazioni di impotenza e, al contrario, illusioni di poter fabbricare moneta che serve a pagare il prezzo di qualsiasi crisi. 

Tre sembrano le intuizioni utili a rinnovare una teoria in affanno. La prima è che non può essere vero che abbiamo inventato un modo per fabbricare soldi senza pagarne le conseguenze. Indebitarsi e chiedere alle banche centrali di sterilizzarne il costo attraverso un Quantitative Easing senza fine, ha, almeno, una conseguenza negativa: alimenta la convinzione che lo Stato possa sfuggire alle sue responsabilità e ciò può portarci all’azzardo morale di ritenere che le riforme non siano, poi, così indispensabili.
La seconda è relativa ai tassi di interesse: è vero che essi sono negativi e, però, la possibilità di accedervi è in buona parte limitata a Stati e imprese che in alcuni casi già non sono più tecnicamente solvibili; molto più difficile è accedere al capitale per giovani imprenditori che puntassero a trasformazioni radicali.

La terza è quella sul ruolo della tecnologia che i modelli econometrici non riescono ad incorporare nelle proprie previsioni. Il costo di memorizzare, processare, trasmettere informazioni si sta riducendo della metà ogni diciotto mesi. Da circa trent’anni. Ciò produce un effetto deflattivo sui prezzi che è probabilmente compatibile con livelli di inflazione negativi. In questo senso non è vero che le politiche monetarie espansive non stanno avendo effetti perché il tasso di inflazione va confrontato con quello negativo che prevarrebbe, spontaneamente, sui mercati di Paesi a industrializzazione consolidata. E questo dovrebbe modificare, persino, i target che le banche centrali perseguono.

Tutte e tre le considerazioni portano a concludere che non è vero che premere il bottone della creazione di moneta o dello stimolo fiscale non ha costi. Che è ancora vero che nulla si crea e nulla si distrugge – in natura così come in economia. E che è ancora drammaticamente certo che l’unica maniera per costruire crescita di lungo periodo passa attraverso l’innovazione, la conoscenza diffusa, istituzioni come la scuola e l’università. 

È venuto, allora, il tempo di ripensare l’economia attorno a ipotesi non convenzionali e coraggiose: quella di consentire alle tecnologie di portarci sistematicamente verso tassi di inflazione negativi; di costruire nuove forme di welfare, nuovi sistemi pensionistici e mercati del lavoro che arrivino a concepire la possibilità che i salari possano seguire una riduzione dei prezzi; di immaginare un ruolo dello Stato che sia non solo quello di investitore di ultima istanza (come nella visione di Keynes) ma di promotore di un’innovazione di medio periodo; laddove questa ultima questione porta con sé la necessità assoluta di rivedere i meccanismi attraverso i quali la democrazia seleziona le proprie classi dirigenti e riesce a esprimere visione e strategia.

Reinventare l’economia richiede saper mettere insieme – proprio come disse Keynes – mestieri diversi e diverse scienze: matematica per verificare ipotesi; sensibilità politica; capacità di comunicare; una buona dose di pragmatismo. Per troppi anni, invece, siamo rimasti pigramente imprigionati di modelli econometrici basati su convinzioni sempre più lontani dalla realtà: buoni per scrivere articoli scientifici che nessuno legge; non certo per comprendere e governare la trasformazione – tecnologica e cognitiva - che sta cambiando la vita di centinaia di milioni di persone. 
 
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