L'analisi/ Se il Pd ha bisogno di ritrovare un’anima

L'analisi/ Se il Pd ha bisogno di ritrovare un’anima

di Roberto Arditti
Venerdì 9 Dicembre 2022, 23:57 - Ultimo agg. 10 Dicembre, 10:36
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Il dibattito sul futuro del Pd ed il suo nuovo segretario ha tutte le caratteristiche per essere di una noia mortale, ragione per cui si può tentare di dire qualcosa di originale solo provando a distaccarsi brutalmente dai mille ghirigori che spesso lo caratterizzano.


Esempio plateale dell’inconcludente tendenza che sembra prevalere è nella dicotomia tra un presunto approccio “liberista” ed uno più attento al “sociale”: alternativa quanto mai sterile, poiché ogni analisi seria può solo giungere alla conclusione che serve una buona dose di libero mercato per far funzionare le cose e far crescere l’economia (a condizione che i poteri pubblici esercitino fino in fondo le loro funzioni di controllo e di sanzione a chi non rispetta le regole, riscuotendo tasse eque e fornendo servizi amministrativi di qualità) e che serve, contemporaneamente, uno Stato capace di fare la sua parte dove può arrivare solo lui, come nella fornitura di servizi essenziali quali scuola, sicurezza, energia, infrastrutture e così via.


Torniamo però al Pd ed alla sua natura profonda, che può essere dignitosamente raccontata attraverso le due fasi che ha vissuto, cioè quella fino al 2011 e quella da allora al governo Draghi.
La prima fase è presto definita, per il semplice fatto che si caratterizza su un solo punto programmatico: opporsi a Silvio Berlusconi. Il Cavaliere è all’epoca il centro della politica italiana ed è lui che genera affinità ed avversità. Lo fa con i suoi alleati (che infatti spesso litigano con lui come Bossi all’inizio, poi Casini e poi anche Fini) e lo fa con i suoi avversari, a maggior ragione con l’unico soggetto in grado di tenergli testa. È la stagione più “comoda” per il Pd, poiché la sua ragion d’essere finisce per strutturarsi “per differenza” dal Caimano”, il nemico dei giudici, il campione del conflitto d’interesse e tutto il resto che abbiamo sentito per anni. 


La seconda fase è quella che parte con il governo Monti ed è quella del Pd architrave dei governi, di tutti i governi, con maggioranze che si formano in Parlamento ma che hanno nel partito il principale (a volte l’unico) concreto riferimento politico.

Monti poi Letta poi Renzi poi Gentiloni. E poi ancora il Conte bis e Draghi. Governi in cui, in tutto o in parte cospicua, il Pd è l’interlocutore principale di categorie produttive, media, diplomazie straniere, alte burocrazie. È la lunga stagione (11 anni) in cui il Pd “è” il governo della Repubblica, anche in considerazione del fatto che al Quirinale si succedono Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.


Il 25 settembre di quest’anno rompe lo schema però. È lo rompe tre volte. Lo rompe perché il Pd perde, perché non riesce ad essere tessitore di alleanze e perché il “traditore” Conte si rivela più vivo che mai, alla faccia del “leale” Di Maio che invece sparisce. 
Ed eccoci al presente, quello di un Pd in fase congressuale che non ha più un nemico mortale davanti (la Meloni è persino una donna, tutto è più difficile) e non è più al governo. Quindi non può più essere nulla di quello che è stato negli ultimi 30 anni, contando anche Pds, Ds e Margherita. Questo è il tuffo nel vuoto di Bonaccini, Schlein ed altri candidati alla segreteria, come De Micheli. Ma questa è anche la ragione per la quale si finirà per scegliere Bonaccini, unico dispensatore di una qualche certezza di fronte alla sgradevole sensazione dell’ horror vacui.

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