di ​Romano Prodi
Domenica 31 Maggio 2020, 00:10
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Le riflessioni sulle conseguenze economiche del Covid19 si concentrano soprattutto sulle tragiche cadute del reddito e dell’occupazione, sulla possibile durata della crisi e, ovviamente, sugli interventi da mettere in atto per uscirne al più presto. Poco si è riflettuto sui radicali cambiamenti che stanno avvenendo nelle regole che governano l’economia. Eppure, senza che nessun economista lo abbia ancora teorizzato in modo sistemico, è già in corso la più imponente rivoluzione degli ultimi tempi. 

Dopo oltre trent’anni nei quali non solo una dottrina, ma una condivisa politica dei governi aveva ridotto ai minimi termini ogni presenza dello Stato nella vita economica, oggi tutti chiedono un maggiore intervento pubblico.

L’intervento dello Stato è ovunque invocato come l’unico strumento disponibile per uscire dalla crisi, attraverso l’impiego di tutte le sue risorse nel sostenere il reddito delle famiglie e delle imprese. È sembrato perfino naturale, proprio perché costretto dalla forza delle cose, che il più rapido di tutti a mettere in atto un intervento del governo senza precedenti, sia stato proprio il presidente Trump. La crisi è così grave che il maggiore nemico della presenza pubblica nell’economia è stato costretto ad adottare la dottrina dettata da Keynes, che di tale intervento è il simbolo da quasi cent’anni.

Non meno evidente è il cambiamento della politica europea: mentre Bruxelles è stato il principale nemico degli interventi pubblici proposti in più riprese dai diversi Paesi, ora i governi sono autorizzati a emettere prestiti di favore e a partecipare direttamente al capitale delle imprese. Una vera rivoluzione, della quale stanno naturalmente approfittando i Paesi che hanno più risorse da spendere. La metà dei duemila miliardi degli interventi pubblici, autorizzati dalle autorità europee, è stata infatti richiesta dalle imprese tedesche e solo l’altra metà dalle aziende dei restanti 26 Paesi. 

Diventa quindi essenziale che vengano approvate il più rapidamente possibile le proposte della Commissione Europea volte ad indirizzare 750 miliardi di Euro non verso la Germania, ma verso i Paesi (tra i quali l’Italia) che più ne hanno bisogno. Questi miliardi non saranno certo sufficienti a colmare gli squilibri che esistono all’interno dell’Unione, ma sono senza dubbio utili per camminare in questa direzione. Avendo assunto un carattere di assoluta novità, gli aiuti pubblici stanno aprendo anche in Germania discussioni e dispute sulle modalità con le quali verranno messi in atto. Assistiamo in questi giorni a scontri di inconsueta intensità sull’eventuale ingresso dello Stato tedesco nel capitale di Lufthansa e su quale debba essere la percentuale dell’eventuale partecipazione pubblica. 

Questa rivoluzione sta naturalmente investendo anche l’Italia. Sia le imprese che le famiglie premono per chiedere al governo, in tempi rapidi ed in quantità adeguate, le risorse necessarie per affrontare la crisi. Nello stesso tempo, le ultime analisi demoscopiche segnalano un radicale cambiamento dell’opinione degli italiani sul ruolo dello Stato nell’economia. Dalla diffusa sfiducia e dal quasi fastidio prima del Covid19, si è passati in poche settimane a vedere nello Stato l’unica ancora di salvezza. Così come è cambiato il giudizio sui rapporti tra pubblico e privato nel campo dei servizi, a cominciare naturalmente dalla sanità.

Nei dibattiti dei media e tra i decisori politici si sta aprendo in Italia una divisione netta fra chi vuole guidare guardando il retrovisore e chi pensa di farsi condurre da disegni irrealizzabili. I primi pensano che nulla sia cambiato e che i soldi pubblici, necessari e richiesti in dimensione rilevante, siano soltanto un incidente temporaneo che nulla cambia nella vita delle imprese. I secondi credono che si possa costruire il futuro riproducendo i disegni del passato, come se nulla fosse cambiato da quando, nel 1933, in conseguenza di un’altra grande crisi, è stata creata l’Iri. Entrambi gli obiettivi sono impossibili: occorre costruire un nuovo progetto che tenga conto dei cambiamenti del quadro internazionale ed europeo. In questo contesto una nuova IRI è improponibile, così come è fuori dalla realtà credere che nulla sia mutato. 
Bisogna pensare ad una strategia che associ i necessari e cospicui crediti alle imprese con la partecipazione pubblica di minoranza, in tutti i casi nei quali sia necessario sostenere i disegni di politica economica del nostro Paese e si possa mettere un limite nei confronti delle operazioni di acquisto delle nostre aziende da parte di fondi o di imprese straniere. 

Lo sta già facendo la Francia che, anche attraverso l’azionariato pubblico, riesce ad avere una presenza tra i grandi protagonisti dell’economia globale molto superiore a quella dell’Italia che pure, nel settore manifatturiero, vanta un fatturato maggiore di quello francese. Non possiamo infatti dimenticare che le imprese nazionali sono ancora uno strumento indispensabile per l’esercizio della sovranità di un paese. Questo è ancora più rilevante nel contesto europeo, dove il ruolo delle imprese è determinante nelle decisioni di politica industriale che condizioneranno il nostro futuro e dove la nostra assenza è quasi la regola. Siamo quindi di fronte a un quadro del tutto nuovo ed è questo il momento di cominciare a disegnarlo, tenendo conto della nostra realtà e dei nostri interessi. Insistendo a guidare con lo sguardo fisso nello specchietto retrovisore si va solo a sbattere. 
 
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