di ​Alessandro Campi
Martedì 7 Luglio 2020, 00:28
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Il centrodestra si presenterà unito all’appuntamento delle elezioni regionali. Ma ora rischia di dividersi sul sostegno al governo nazionale. La maggioranza giallo-rossa, che sostiene il governo guidato da Conte, non riesce invece a trovare un accordo per le amministrative di settembre. 

Non è un paradosso, piuttosto è il modo di muoversi tipico della politica italiana degli ultimi vent’anni: mai per linee dritte e semplici, sempre a zig-zag e in modo contorto, mai seguendo un qualche disegno politico coerente, sempre inseguendo le contingenze, gli umori e le convenienze di questo o quello. Anche quando tutto sembra fermo o in stallo, qualcosa eppur si muove, se non altro al livello delle (non sempre buone) intenzioni. Non solo, ma si scopre che quello che valeva solennemente ieri, magicamente oggi non vale più, laddove la contraddizione (compresa quella di se stessi) per i politici che calcano la scena nazionale non è considerato un difetto, ma un’apprezzata virtù. E dal momento che si recita a soggetto, la trama cambia di continuo e non si può mai prevedere il finale. 

Ecco allora cosa si è trovato rispetto alle difficoltà obiettive dell’esecutivo in carica, nato contro Salvini quando quest’ultimo era fortissimo ma costretto, per tenersi in vita, ad agitare lo spettro di Salvini anche ora che quest’ultimo s’è assai indebolito. 

Non si è trovato di meglio che far serpeggiare l’idea di un allargamento della maggioranza nientemeno che a Silvio Berlusconi. Nessuna richiesta esplicita, nessuno invito diretto, ma appunto un dire senza dire, un gioco di ammiccamenti, aperture e abboccamenti, che potrebbe portare alla nascita di un nuovo governo ma forse anche no. Tutto è possibile, niente è certo.

L’idea sembrerebbe nata dallo stesso Conte e potrebbe essere null’altro che uno spauracchio agitato ad arte: si finge di aprire al Cavaliere (nel nome della moderazione e del senso di responsabilità) con l’obiettivo di ricondurre a più miti consigli quei settori del M5S da settimane in fibrillazione e che vanno minacciando scissioni, ribaltoni parlamentari, cambi di premier o passaggi di casacca in Senato. L’idea che esista un’alternativa numerico-politico a chi cerca di minare il governo dall’interno dovrebbe funzionare da deterrente contro le manovre in corso nei corridoi dei Palazzi.

Naturalmente, un qualunque scenario politico per essere plausibile deve essere almeno un poco credibile sul piano dei fatti e dal punto di vista dei diretti interessati. Gli elementi non mancano, in questo caso. Se si parla di ricostruire un Paese o di impedire che sprofondi in una crisi economica “devastante” (Gualtieri dixit), ci può stare che si cerchi il coinvolgimento in Parlamento delle forze d’opposizione più dotate, se non di senso istituzionale, almeno di spirito pragmatico e meno inclini al dogmatismo propagandistico: Forza Italia, per quanti voti abbia perso strada facendo rispetto al suo glorioso passato, è ancora un apprezzabile bacino di elettori moderati e poco sensibili ai richiami del nazionalismo anti-europeista, ai quali non a caso da sempre guarda la sinistra soi-disant riformista (prima l’astro nascente Renzi, poi l’astro che stenta a nascere Calenda, ora a quanto pare il Conte già populista dichiarato ma ormai sempre più a suo agio nei panni dello statista che si vuole progressista, liberale, modernizzatore, decisionista e super partes).

C’è poi da considerare la grande voglia che Berlusconi ha di ritrovare un ruolo eminente per sé e per il suo partito, dopo che nel centrodestra da lui inventato, e del quale è stato per venticinque anni il capo indiscusso, si è trovato a svolgere il ruolo poco gratificante e un tantino umiliante dell’alleato minore. Un desiderio di rivalsa o di ritrovata autonomia avvalorato ex contrario dall’atteggiamento sempre più allarmato e diffidente verso il Cavaliere tenuto da Salvini e dalla Meloni: pronti a giurare in pubblico che il fondatore di Forza Italia mai e poi mai tradirà la causa del centrodestra, convinti in cuor loro che invece potrebbe accadere. Loro vogliono elezioni anticipate, Berlusconi no: basta questo, sul piano della mera tattica, ad alimentare il valzer dei sospetti tra alleati che, non è un gran segreto, umanamente e per ragioni generazionali non si sono mai presi.

Ma ad accrescere il valore di queste aperture, per il momento ancora oblique e tangenziali, al Cavaliere, che in cambio d’un cambio potrebbe persino ottenere il laticlavio a vita o, addirittura, la poltrona del Colle (ma è da sperare che sia lui per primo quello che non prende sul serio queste profferte sfacciatamente opportunistiche), c’è la curiosa metamorfosi fatta di recente registrare da Giuseppe Conte. Che se si è rivolto benignamente a Berlusconi, non è solo perché sta davvero pensando ad una maggioranza più larga e inclusiva che ne rafforzi la posizione come premier stanti i pericolosi smottamenti in casa grillina e i nervosismi che agitano il Pd, ma anche per via d’una certa consonanza tra i due che potremmo definire enfaticamente d’ordine estetico-antropologico. 

C’è infatti un che di accentuatamente berlusconiano nel Conte ultima maniera, che forse andrebbe indagato meglio, dal momento che potrebbe trattarsi d’una mutazione del premier potenzialmente foriera di inediti sviluppi. Non è tanto il fatto che anche l’“avvocato del popolo” in fondo si è fatto da sé ed è giunto al potere da perfetto outsider; o che condividano una devozione religiosa di stampo popolare efficace sul piano dell’immagine anche perché esibita in modo, magari opportunistico, ma non sguaiato o volgare.

I fattori di comunanza più recenti e significativi sono altri: il “sondaggismo” come bussola d’ogni decisione; una certa tendenza (che non sappiamo come si dica in pugliese) al “ghe pensi me”, confermata dal fatto che non c’è riforma annunciata che non preveda ormai una crescita dei poteri di Palazzo Chigi; l’uso davvero sapiente del mezzo televisivo e di ogni possibile canale di comunicazione, senza che nulla venga lasciato al caso; il parlare agli italiani bypassando i partiti; il fatto che il suo gradimento vada crescendo in quella fetta di popolazione fatta di anziani e donne che fu lo storico bacino di consenso del Cavaliere; le pose affettate e un tantino azzimate da gentiluomo elegante che sembrano richiamare un’Italia in via di scomparsa; i richiami costanti alla moderazione, al buon governo e alla concretezza del fare contro i “professionisti della chiacchiera”; l’accreditarsi all’estero seguendo una diplomazia dell’amicizia personale; il dialogo, diretto e senza mediazioni, sempre più ricercato con gli imprenditori e gli esponenti del mondo economico; di recente, alla prima romana di una rassegna cinematografica, un discreto tuffo nella mondanità al fianco della compagna (le storie italiane si raccontando sempre partendo da una coppia, lui e lei, ben affiatata e fotogenica).

Suggestioni troppo vaghe? Forse conta di più l’anima immarcescibilmente democristiana, cioè tentennatrice, accomodante, includente, dialogante allo sfinimento, che si scopre, prima o poi, in tutti coloro che governano questo Paese senza alcuna illusione di poterlo cambiare dal profondo: così fu con Silvio, così è con Giuseppe, al quale il sostegno parlamentare di Berlusconi – se mai verrà – non solo farebbe oggettivamente comodo sul piano dei numeri, ma servirebbe come segnale inequivocabile che qualcosa di profondo s’è messo in modo. Non tanto e non solo un nuovo governo o una nuova maggioranza, ma nuovi rapporti di forza, nuovi equilibri di potere, preludio di una nuova offerta politico-partitica (contiani, berlusconiani, calendiani, boniniani e renziani tutti insieme contro i populismi di destra e di sinistra?) e dunque d’una stagione che è difficile possa rivelarsi, qualunque cosa accada, peggiore dell’attuale.

Non succederà, ma essendo nell’Italia senza più bussole ideologiche potrebbe anche succedere.
 
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