di Francesco Grillo
Domenica 19 Luglio 2020, 00:07 - Ultimo agg. 10:56
4 Minuti di Lettura
“Sono due le sfide alle quali è legata la possibilità stessa di uscire dalla depressione: recovery e riforme. (...)
Ci salveremo solo se riusciremo a trovare i tempi giusti per perseguire entrambe le imprese”. Le due parole chiave che definiscono la proposta della Commissione europea che il Consiglio sta faticosamente discutendo in queste ore, sono le stesse che usò John Maynard Keynes nella lettera indirizzata al presidente americano Roosvelt nel 1933. Oggi come allora, affrontiamo una crisi che può spazzare via un intero stile di vita: il nostro. E come con il New Deal, è indispensabile dare - subito - a imprese e individui la fiducia di potercela fare, per creare consenso attorno all’idea di cambiamenti profondi che hanno bisogno di tempo più lunghi per dispiegare i propri effetti.

È questa la curva di equilibro incerto sulla quale si sta giocando il futuro dell’Unione. È sbagliato, però ridurre, come fa qualcuno, la battaglia per uscire da una crisi sanitaria, economica e istituzionale di proporzioni storiche, ad una partita di calcio tra due Paesi – Italia e Olanda – che sono, persino, entrambi fondatori dello stesso progetto. L’Italia può, in realtà, ancora vincere e trascinare ad una prospettiva diversa il resto d’Europa. Proprio l’Italia potrebbe riuscirci perché dall’Italia, in fondo, è nato quel progetto (a Messina, 65 anni fa) ed è dall’Italia che ne è cominciata la crisi. In fondo, basterebbe fare i compiti a casa in maniera pragmatica, rinunciando all’ipocrisia di una politica che – sia a livello italiano e che europeo – è abituata al rinvio. Sono convinto che può bastare una giusta dose di realismo da parte di un Paese così importante e in difficoltà, per trasformare la sfiducia in credibilità e conquistarci la legittimità per fare una proposta di riforma dell’Unione stessa. Basterebbe ammettere che, in fondo, al di là delle grandi trasformazioni ambientali e digitali, ci sono due progetti che ne sono, nel nostro caso, imprescindibile precondizione.

La scelta più forte che l’Italia può fare è di ricominciare da ciò che ci ha definito per secoli, prima che ce ne dimenticassimo tra mille telepromozioni: la conoscenza, quella su cui si giocano i rapporti di forza tra Nazioni nel ventunesimo. In altre prole la Scuola, proprio quella che è rimasta chiusa in Italia più che in qualsiasi altro Paese del mondo. Sarebbe esemplare un piano che puntasse a trasformare quello che è un nostro punto di debolezza nella leva attorno alla quale ritrovare futuro. Per la Commissione diventerebbe modello, un progetto che preveda un piano di investimenti dettagliato per territorio con l’obiettivo di fornire a tutti gli studenti, in particolare al Sud, la possibilità del tempo pieno da frequentare in scuole trasformate in campus; che sia accompagnato da un riequilibrio della spesa pubblica – oggi spendiamo più di tutti in Europa in pensioni e meno di tutti in istruzione – e aumenti qualificandola l’offerta di personale docente; che trovi come propria condizione organizzativa, la costruzione di un sistema fondato sull’autonomia delle singole scuole.

Il secondo capitolo è quello della trasformazione complessiva dell’amministrazione pubblica italiana e di un forte investimento nella possibilità che i servizi pubblici siano accessibili dovunque. Basta andare sul sito della Direzione generale delle Politiche di Coesione - quella alla quale è allocata la più alta percentuale di risorse del prossimo bilancio comunitario – per avere una fotografia di cosa, davvero, riduce la fiducia: sia quella nell’Italia sia nelle stesse politiche comunitarie. L’Italia che sta per diventare il maggior beneficiario di finanziamenti europei, è stata – negli ultimi sette anni – al terz’ultimo posto per capacità di spesa di fondi strutturali. Pensiamo a quanto si sarebbe potuto fare proprio nel Mezzogiorno con quei denari, finiti in chissà quale progetto straniero a spese del contribuente italiano.

Ciò non è più tollerabile ed è, di nuovo, la situazione che viviamo – sospesi tra il baratro della recessione e la necessità di inventare un “nuovo normale” – che crea oggi le premesse per realizzare il sogno di una riforma sfuggita a chiunque l’abbia tentata negli ultimi tre decenni. È con la Commissione che va disegnato un patto legato ad un progetto che, progressivamente, leghi carriera e incentivi dei dirigenti pubblici ai risultati ottenuti; che renda possibile il licenziamento nel caso di fallimenti ripetuti; che introduca nei meccanismi di appalto premi legati all’entità dei risparmi realizzati attraverso l’innovazione; che accompagni all’eliminazione di servizi inutili, l’investimento in infrastrutture e formazione che portino quelli essenziali (partendo da quelli sanitari) a tutti i cittadini (compreso quelli anziani).

La crisi italiana ed europea sono parte dello stesso problema. Se riuscissimo - proprio noi e proprio nell’ora più buia – a diventare un esempio di come possa funzionare l’idea di mettere insieme “investimenti” e “riforme” avremmo, forse, persino la forza per indicare all’Europa un metodo per uscire dalla sua crisi. Metodo che è lo stesso che oggi suggerirebbe Keynes: raggiungere risultati immediati, per conquistare la fiducia ed il tempo necessari per scelte che metteranno in discussione tutti e che non possono più passare attraverso unanimità paralizzanti.
www.thinktank.vision
© RIPRODUZIONE RISERVATA