di Mario Ajello
Lunedì 4 Gennaio 2021, 00:10
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L’Italia si è sempre un po’ compiaciuta di non saper fare le cose normali ma di eccellere nelle cose straordinarie. Stavolta, non è affatto così. Ci stiamo approcciando alla lotta al virus con ritmi, modi e mezzi quasi consuetudinari o comunque non all’altezza dell’emergenza e dello stato d’eccezione. Che richiederebbero un’uscita energica e lucida dall’ordinario e non il solito tran tran dell’indecisionismo e delle vaghezze di fronte alla devastazione, umana ed economica, da pandemia. 


Ecco, nei passaggi più delicati della nostra storia, questa è stata una nazione - grazie alla qualità della sua classe dirigente - capace di dare risposte forti a situazioni forti. Così è avvenuto al tempo della ricostruzione post-bellica, e abbiamo avuto il boom economico degli anni ‘60. E così è accaduto anche al tempo del terrorismo contro cui la reazione, seppur tardiva, s’è rivelata degna di uno Stato forte. Lo stesso si può dire dello stragismo mafioso, che ha prodotto una mobilitazione istituzionale e civile da Paese con schiena dritta e valori solidi. E ancora: non è stato un esempio di eccezionalità, che moltiplica le energie, lo sforzo che facemmo tutti quanti per entrare in Europa? 


Questo tipo di approccio pragmatico e lungimirante, da Paese che si gioca il futuro e che ha impellente bisogno di risalire da un Pil sprofondato a meno 10 secondo le stime della Commissione Ue, non è rintracciabile nell’attuale indolenza da tempi di pace senza pace.

Si ripropongono i più vieti cliché dell’antropologia da immobilismo italiota, di cui è tristissimo esempio Giulio Gallera - l’assessore alla Salute in Lombardia dove s’è sbagliato tutto - quando dice: «La vaccinazione? Aspettiamo dopo il 4 gennaio che tornino dalle meritate vacanze gli operatori sanitari». Un’affermazione che rasenta la follia, e che conferma l’irresponsabilità dilagante purtroppo anche al di fuori dalla disastrosa Milano. 


Parole così fanno il paio - in molto peggio, perché l’abnegazione degli italiani nella resistenza si sta rivelando superiore all’ossimoro della rilassatezza agitata delle loro cosiddette élites - con le lamentele di tutti quelli che, a dispetto dei lutti, in questi giorni non hanno fatto che dire: «Ah, il Natale almeno potevano lasciarcelo...», «Uffa, che cosa sarà della mia settimana bianca se le piste da sci non riaprono subito...», «E la Pasqua? Mica dovremo fare un’altra Pasqua di confinamento?». 


Non può esserci normalità nella tempesta. E chi, come il governo, si aggrappa agli approcci di prima confidando che “adda passà ‘a nuttata” sfuggendo all’obbligo di scelte impegnative e impopolari - dal prolungamento del lockdown previsto in altri Paesi europei all’obbligo vaccinale o almeno passaporto di immunizzazione - non fa un buon servizio alla ragione e al benessere dei cittadini.

Emblematico il caso della scuola. In cui la ministra Azzolina, in nome di una impossibile «normalità» e incapacità a riconoscere l’emergenza, s’impunta per la riapertura il 7 gennaio. Contro il parere di una parte del suo governo, dei presidi, dei professori, dei sindacati, degli scienziati. Tutti consapevoli che soltanto un surplus di straordinarietà (del tutto assente) nella riorganizzazione della scuola e dell’accesso alle scuole (i trasporti) può garantire all’Italia ciò che gli altri Paesi assicurano a se stessi: la continuità dell’insegnamento nei licei. 


Stessa storia per i vaccini. Con il commissario Arcuri che dice alle Regioni «sbrigatevi!» e le sprona a far fare 65mila iniezioni al giorno ma in assenza - l’impegno straordinario fatelo voi, io sono l’Italia di sempre! - delle condizioni di fattibilità. Ovvero di un piano vero sulla distribuzione delle fiale, con i tempi e i modi dettagliatamente indicati; di un’organizzazione logistica per le punture; di un potenziamento delle risorse medico-infermieristiche pubbliche necessarie per massimizzare la capacità di somministrazione in modo coerente con la disponibilità prevista dei vaccini; di una campagna d’informazione che non si limiti al leggerismo caricaturale delle primule, il fiore simbolo scelto per i tendoni del vaccini, quando invece ci sarebbe da fare una potente opera di conoscenza contro il pregiudizio No Vax. 
La logica surreale della normalità è irriducibile a questa suprema assunzione di responsabilità. Ne è comodamente allergica. Non comprende che ogni giorno perduto nel temporeggiamento alla Gallera o alla Arcuri è quantificabile in perdite di vite umane e di punti del Pil. Pianificare, organizzare, informare, gestire subito e bene non solo la campagna vaccinale ma anche tutto il resto dovrebbe essere una missione laica, in cui si distinguono i valori di uno Stato: la serietà, la consapevolezza di un destino comune, la scelta della vita come priorità e della «pubblica felicità», come la chiamavano gli illuministi, come diretto corollario economico e sociale. Ma tutto questo è difficile da rintracciare nell’azione e nell’inazione per ora dominanti. 
Si avverte piuttosto, come sempre e più di sempre, quel senso provvidenziale della storia - nel Paese che ha avuto la Controriforma senza avere la Riforma - per cui comunque in qualche modo le cose s’aggiustano. «Il carattere nazionale - così diceva José Ortega Y Gasset nel meraviglioso «La ribellione delle masse» (1930) - come ogni cosa umana non è un dono innato, ma una costruzione». Non sarebbe l’ora, per effetto di una catastrofe così forte, di provare a cambiarlo?
 

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