di ​Gianfranco Viesti
Lunedì 20 Marzo 2023, 00:10
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Fra qualche anno l’Italia potrebbe essere un Paese molto diverso, in seguito all’autonomia regionale differenziata. Potrebbe diventare uno stato arlecchino, nel quale i poteri di realizzare le principali politiche pubbliche sarebbero frammentati in misura diversa fra le Regioni, e al governo centrale riuscirebbe davvero difficile, se non impossibile, mettere in atto politiche nazionali. 
Per rendersene conto basta scorrere il documento “Ricognizione della normativa e delle funzioni statali nelle materie di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” predisposto dal ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie. Per la verità, non è facile scorrerlo, perché non è disponibile sul sito istituzionale; circostanza assai preoccupante perché è essenziale che tutti possano rendersi conto del suo significato. Come nel 2019 il processo dell’autonomia differenziata pare avviarsi all’insegna di una scarsissima trasparenza. 
Il documento elenca circa 500 funzioni oggi esercitate dallo Stato e che potrebbero essere affidate, a geometria variabile, alle Regioni. È fondamentale ricordare che le eventuali Intese per cedere competenze dallo Stato alle Regioni nelle 23 materie in cui sono state richieste non potranno mai più essere cambiate se non con il consenso di queste ultime; e che la specifica definizione delle funzioni all’interno di queste 23 materie, del personale, dell’applicazione delle leggi nazionali sarebbe decisa - successivamente alle Intese - da Commissioni Paritetiche, sottratte al controllo del Parlamento e della Corte Costituzionale. Per questi motivi è così importante la lista delle 500 funzioni. Ma ci vorrebbero pagine e pagine di questo giornale solo per elencarle. Basti dire che si tratta di quasi tutte le politiche pubbliche tranne esteri, immigrazione, giustizia, difesa e pubblica sicurezza. Si può invece fare qualche riflessione su tre principali conseguenze di questo possibile, colossale, decentramento.
La prima è che Roma ne riceverebbe un colpo durissimo. Molti ministeri sarebbero svuotati di competenze e responsabilità, ed è difficile immaginare che fine farebbe il loro personale. Si parla molto, e a ragione, delle possibili conseguenze negative per il Mezzogiorno dell’autonomia regionale differenziata. Si parla troppo poco delle conseguenze negative, grandi e certe, per la Capitale. Se anche solo una parte delle 500 funzioni fossero affidate ai presidenti e alle Giunte Regionali della Lombardia o dell’Emilia-Romagna, l’intero assetto politico-amministrativo del Paese sarebbe trasformato. Non accadrebbe certo il giorno dell’eventuale, e assolutamente non auspicabile, ratifica parlamentare delle Intese Stato-Regioni; ma quel giorno si metterebbe in moto una valanga inarrestabile che anno dopo anno porterebbe a questo risultato.
La seconda è che diventerebbe molto più difficile fare impresa in Italia, perché ci sarebbero norme frammentate e differenziate da regione a regione nell’edilizia e nella legislazione paesistica; nei servizi sanitari e nella farmaceutica; nei beni e servizi per l’alimentazione, l’ambiente, la cultura; nei servizi per l’energia e i trasporti. Con una clamorosa contraddizione rispetto al decennale processo di armonizzazione e mutuo riconoscimento a livello europeo, per la creazione del mercato unico, si tornerebbe indietro verso gli staterelli che c’erano prima dell’Unità d’Italia.
La terza è che sarebbe impossibile scrivere un documento come il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, o coordinare più efficacemente le politiche di sviluppo e coesione, ovvero costruire una politica energetica italiana, come pure il governo in carica ha dichiarato di voler fare. Una parte significativa delle decisioni potrebbero essere valide solo in alcuni territori, ovvero richiedere, regione per regione, una trattativa per ottenere il permesso della Giunta, siano esse le reti ferroviarie, le nuove strutture di sanità territoriale, i gasdotti. La capacità di governo dell’Italia ne sarebbe fortemente ridotta.
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