di Carlo Nordio
Lunedì 22 Marzo 2021, 00:12
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Il vicepresidente del Csm, David Ermini, ha qui espresso, nell’intervista di ieri, un concetto apparentemente banale ma in realtà rivoluzionario: che nel valutare la professionalità di un magistrato vi sia anche un controllo sulla qualità e tenuta dei suoi provvedimenti. Per esempio, se tanti processi chiesti da un Pubblico ministero finiscono in assoluzioni qualcosa di quel Pm non va. Il concetto è quasi ovvio, perché la capacità di ogni lavoratore, dall’idraulico al cardiochirurgo, si misura sui risultati che ottiene, tenendo però conto della difficoltà dell’intervento. 

L’avvocato che fa assolvere i suoi clienti non è necessariamente il più bravo di tutti, se accetta solo difese facili. Al contrario il nostro più leggendario principe del foro, il professor Carnelutti, ha collezionato un elenco di condanne impressionanti, perché in genere i suoi assistiti, da Graziani a Fenaroli, versavano in genere in condizioni disperate. Lo stesso vale per gli oncologi: gli specialisti della mammella hanno una percentuale di guarigioni enormemente superiore a quelli del pancreas.

Questo non perché siano più bravi, ma perché intervengono in un settore meno complesso. E così è per i magistrati. Detto ciò, va fatta un’ulteriore distinzione, tra chi giudica e chi inquisisce. Le Corti d’Assise, che si occupano dei reati più gravi, sono formate da una maggioranza di giurati popolari estratti a sorte. Molte sentenze vengono riformate in Appello, poi annullate in Cassazione e magari riconfermate nei successivi giudizi di rinvio. Chi ha sbagliato in questo eterno andirivieni, dove la ricostruzione dei fatti è spesso controversa e la Cassazione talvolta smentisce se stessa?

Questione complessa, che non può essere affrontata e tanto meno risolta, in termini emotivi o demagogici. E infatti Ermini si riferisce solo ai giudici civili, per i quali i criteri sono più facili: il magistrato si rivela inadeguato quando non conosce i fascicoli e quando non conosce le leggi. Superfluo dire che la sanzione, più che il suo portafoglio, dovrebbe colpire la sua carriera, e magari la sua stessa permanenza in magistratura. 
Perché allora il discorso di Ermini è rivoluzionario? Perché tocca essenzialmente i Pm: e qui il discorso è completamente diverso. Il nostro Pubblico ministero ha un potere immenso, svincolato da ogni responsabilità. Quando nel 1988 abbiamo scopiazzato - malamente - il sistema anglosassone, abbiamo voluto la botte piena e anche la moglie ubriaca.

Avevamo infatti davanti due opzioni sulla struttura dell’ufficio dell’Accusa. La prima è quella americana, dove il District Attorney è, come da noi, il capo della polizia giudiziaria, e può indagare chi vuole. Con un particolare: che i suoi sostituti sono scelti da lui, e se imbastiscono processi che si concludono in assoluzioni li manda direttamente a casa. 

Non solo: la sua carica è elettiva, e se quindi non si dimostra all’altezza, gli elettori non lo confermano, e cambia mestiere. Il secondo sistema è quello inglese. Lì il Pm, che fino a pochi anni fa nemmeno esisteva, è indipendente, più o meno come da noi. Tuttavia non ha affatto la possibilità di iniziare le indagini, perché queste spettano alla Polizia. È Scotland Yard a fare tutto: poi presenta il pacchetto all’avvocato dell’accusa, che decide se chiedere o meno il processo. Tralascio, per ovvi motivi, di citare i Paesi dove il Pm ,come in Francia, dipende dal potere esecutivo. 

Orbene, nessuno in Italia ha mai fatto finora il calcolo dei costi/benefici di tante inchieste finite nel nulla, e degli insuccessi dei relativi Pm. Alcune di queste hanno comportato spese colossali, con intercettazioni e consulenze inutili, devastanti e costose; hanno distrutto famiglie, compromesso carriere politiche e professionali e magari determinato suicidi. Salvo poi rivelarsi campate in aria. 

L’alibi della toga inquirente era quello solito: l’azione penale è obbligatoria. Già. Ma lo è in presenza di un reato, e nei confronti di un sospetto colpevole gravato di indizi sufficienti. Da noi talvolta è proprio il Pm che va a cercarsi l’uno e l’altro, o per eccesso di zelo, o magari per ragioni meno nobili, come le rivelazioni di Palamara hanno ampiamente dimostrato. Per questo è interessante vedere non tanto come i procedimenti finiscono, ma come nascono, e magari perché. 

La proposta di Ermini è rivoluzionaria proprio per questo: sarebbe un primo passo per valutare non solo l‘efficienza e la preparazione dei magistrati, ma anche l’origine di indagini rivelatesi infondate, inutili, costose e magari persecutorie. Temo che le resistenze saranno feroci, e saranno fondate sulla sacrale litania dell’indipendenza della magistratura, come se quest’ultima si identificasse nell’insindacabile arbitrio di indagare chi si vuole, come si vuole, e indipendentemente dalle conseguenze finali. Un potere, come s’è detto, enorme, senza nessuna responsabilità.

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