di Alessandro Campi
Giovedì 10 Giugno 2021, 00:03
5 Minuti di Lettura

Viviamo politicamente (e non solo) nel tempo dell’effimero e della dimenticanza. Oggi si dice una cosa, domani se ne fa un’altra, o forse semplicemente non si fa niente. Vale anche per la proposta di una federazione tra Lega e Forza Italia, che sembrerebbe morta prima ancora d’essere nata?

Contro questa idea militano in effetti diversi fattori. Per cominciare, l’eccesso di estemporaneità: senza un lavorìo preparatorio, politico e organizzativo, culturale forse è troppo, cosa può nascere se non un ircocervo senza vita? Poi l’evidenza che le fusioni politico-partitiche non danno quasi mai la somma totale attesa: qualcosa, forse troppo, si perde sempre per strada, ma allora perché mettersi insieme? Infine, il ricordo non esaltante dell’esperienza del Popolo delle Libertà: l’unione nel marzo 2009 tra Forza Italia e Alleanza nazionale, sulla carta un progetto ragionevole, fu al dunque un affare per Berlusconi e un disastro per Fini. La bulimia di potere del primo spinse il secondo allo scontro personale: fu l’inizio della lenta dissoluzione di quel progetto, conclusosi nel 2013.

Ma quello almeno era sulla carta un partito, una struttura formalmente unitaria, con tanto di inno, simbolo e bandiera, con una carta dei valori, un presidente, un segretario, tre coordinatori, un’ampia sede nella romana via dell’Umiltà.

Questa che si vorrebbe fare oggi è una federazione. Ma che vuol dire esattamente? Si unificano i gruppi parlamentari per parlare con una voce sola nelle aule? Ci si inventa una sigla comune da spendere alle elezioni salvo restare ognuno padrone in casa sua? Il Polo delle Libertà, la coalizione elettorale di centro-destra tra forzisti e leghisti, presentatasi alle politiche del 1994, era già qualcosa del genere. Si pensa di tornare a quell’esperienza con rapporti di forza nel frattempo invertiti? Forse il progetto, se tale è, andrebbe meglio chiarito.

Ciò detto, l’idea del partito unico del centrodestra circola, per chi se ne fosse scordato, dalla metà degli anni Novanta. Era ad esempio una fissa di Pinuccio Tatarella, salvo preferirgli ogni tanto la formula più tranquilla della coalizione: uniti, ma indipendenti. Ed era un’idea che, sebbene mai concretizzatasi, aveva un suo intrinseco significato: politico, nella logica della democrazia dell’alternanza e del bipolarismo che si immaginava potesse diventare bipartitismo; e sociologico, tenuto conto che l’elettorato di centrodestra è sempre stato un blocco più omogeneo dei tanti partiti che nel tempo l’hanno rappresentato.

Che l’idea sia tornata fuori, anche se in modo troppo repentino, non deve dunque sorprendere. Ci sono anche in questo caso ragioni politiche. Quale il futuro di Forza Italia senza il suo fondatore? Prima che si sfasci tutto – questo pensano in molti nelle sue fila – meglio studiare una via d’uscita. L’accordo con la Lega potrebbe essere una soluzione: onerosa, visto l’attuale equilibrio delle forze, ma il rompete le righe sarebbe peggio. Nel mondo berlusconiano molti hanno fatto diga verso quella che temono sarebbe un’annessione. Ma a molti altri l’idea non dispiace e da tempo. Contare qualcosa in un grande contenitore o non contare nulla per mancanza di contenitore?

Quanto a Salvini, a parte la concorrenza elettorale con la Meloni che soffre personalmente, e si vede, c’è un problema anch’esso politico che può averlo spinto a questa proposta: dare un senso compiuto alla sua idea di una Lega che egli vorrebbe nazionale ma che è ancora troppo nordista.

Di una Lega che, da lui guidata, possa essere percepita per l’immediato domani come una forza di governo affidabile non solo sui territori, considerato come è malamente finito l’esperimento con i grillini. Dopo il sostegno concesso al governissimo guidato da Draghi, l’abbraccio col moderatismo berlusconiano, specie se funzionale al suo futuro avvicinamento alla famiglia dei popolari europei, gli sarebbe utilissimo in questa chiave.

Ma qui si apre una questione. Può un radicale diventare un moderato? Quanto un politico può credibilmente cambiare rispetto all’immagine che si è costruito e che se ne ha? E quanto possono cambiare i suoi elettori, specie dopo che sono stati abituati ad un certo linguaggio virulento? La destra in Italia sembra chiusa, secondo alcuni osservatori, in questa esiziale alternativa: guadagna consensi e vince quando urla (essendo questa la sua vera natura), ma poi non riesce a governare; perde invece voti se abbassa la voce senza peraltro risultare affidabile agli occhi di chi, parliamo del cosiddetto establishment, continua a disprezzarla. 

L’estremismo verbale dei populisti, come i diamanti, è dunque per sempre? Per la destra non sembra esserci redenzione o possibilità di battere strade nuove anche quando lo scenario storico tutto intorno è cambiato. Ma se così fosse a sinistra avremmo ancora il glorioso Partito comunista italiano.
In realtà, la storia ci dice che i voltafaccia, anche repentini, possono funzionare: dipende sempre dalle circostanze che li determinano e dagli obiettivi, nuovi e diversi rispetto a prima, che si intende perseguire. La condizione dunque è che siano, per quanto radicali, cambiamenti politici, non sbalzi di umore d’origine ciclotimica.

Oggi Salvini, già secessionista padano, già giustizialista anticasta, già crociato dell’ordine pubblico, già difensore dei sacri confini della patria contro il barbaro invasore, si atteggia a garantista, a fautore della stabilità di governo, a capo in pectore dei moderati che votavano in massa il Cavaliere, ad alleato di sponda destrorsa del popolarismo centrista, a rappresentante privilegiato delle categorie produttive. Sono abiti troppo nuovi per renderlo credibile ed elettoralmente appetibile? Come liberale azzimato in effetti è difficile vederlo, ma come conservatore rude potrebbe invece funzionare.

Salvini ora fa anche l’europeista e tutti a dire, ancora una volta, che non è una cosa seria. Ma attenti perché in questo caso, più che Salvini, è cambiata l’Unione Europea a causa della pandemia. Quella dell’austerity e dei vincoli di bilancio non piaceva al capo della Lega (ma se è per questo nemmeno a molti europei di provata fede democratica). Quella sociale-solidale odierna, che distribuisce soldi e finanziamenti, fa sì che i sovranisti possano ora considerarsi, senza nemmeno contraddirsi troppo, buoni europeisti. Per gli avversari del sovranismo, questo slittamento argomentativo rischia di essere micidiale.

Insomma, cambiare in politica si può. Nel caso di Salvini, cambiare si deve, specie quando si ha la ragionevole impressione di essere finiti – come dopo l’estate pazza del Papeete – in un vicolo cieco. Resta il problema di come farlo: con quale metodo, quali tempi, quali argomenti. Al momento sembra prevalere l’occasionalismo un po’ effimero tipico degli improvvisatori, ma potrebbe anche darsi che qualcosa di politicamente serio si stia muovendo da quelle parti. Lo capiremo presto. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA