Suarez/ Quanto è utile al nostro Paese concedere la “cittadinanza”

Suarez/ Quanto è utile al nostro Paese concedere la “cittadinanza”

di Vittorio Emanuele Parsi
Lunedì 28 Settembre 2020, 00:31 - Ultimo agg. 08:53
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La vicenda farsesca dell’esame di italiano taroccato del calciatore Suarez, oggetto del desiderio juventino, ha riempito la rete di gustosi sfottò e aspre polemiche, come sempre succede quando c’è di mezzo quella che era “la vecchia signora” del calcio italiano (pre-Moggi) e quando si possono affondare i denti nel sempre più indigente sistema universitario nazionale.

Lo scandalo è emerso in quasi perfetta concomitanza del 150° anniversario dell’unificazione d’Italia, di quella Breccia di Porta Pia che liberò i romani dal plurisecolare dominio temporale della Chiesa cattolica, trasformandoli da sudditi del Papa-re in cittadini del Regno d’Italia. E attesta, purtroppo, in quale miserabile conto sia tenuta la cittadinanza oggi, di fatto considerata da chi muove i giganteschi capitali che ruotano intorno al calcio come qualcosa che si può comprare per aggirare le regole del fair play, che pure nello sport dovrebbero fare da stella polare per qualunque comportamento.

Eppure c’è ancora qualcuno per cui è la cittadinanza a rappresentare una stella: pensiamo ai militari che rinnovano ogni giorno il giuramento di difendere la Costituzione e l’integrità della Repubblica e ai milioni di cittadini che si sentono “italiani” anche fuori degli stadi di calcio. E dovremmo anche ricordare tutti coloro per cui, invece, la cittadinanza costituisce un miraggio, un punto d’arrivo irraggiungibile o ben difficile da ottenere, neppure “per merito”.

Mi riferisco innanzitutto alle molte decine di migliaia di giovani nati in Italia o arrivati nel nostro Paese in tenera età e cresciuti completamente all’interno del nostro sistema sociale e di istruzione. Ragazze e ragazzi che sono o sono stati i compagni di scuola delle nostre figlie e dei nostri figli e di cui percepivamo la “diversità” penalizzante quando, magari nell’organizzazione della gita scolastica a Parigi o a Berlino, scoprivamo che non potevano partecipare perché “stranieri extracomunitari”.

Per pura coincidenza, la vicenda Suarez (nel frattempo passato dai Blaugrana catalani ai Colchoneros madrileni) è esplosa mentre Zingaretti risollevava la questione dell’adeguamento dei criteri per l’ottenimento della cittadinanza, ritenuto dalle destre e da buona parte dei pentastellati un tema da anime belle o da radical-chic. Il paradosso è che appena 3 anni fa, quando l’Europa era scossa da una serie di attentati di matrice jihadista, la faccenda era oggetto di una furibonda polemica politica (come al solito) ma anche di riflessioni ben più serie e ponderate. Era emerso infatti che l’azione di attrazione dello Stato Islamico (allora Isis, qualcuno lo ricorderà ancora, spero) era particolarmente efficace tra gli europei di “seconda generazione”, tra i figli dei migranti arrivati da oltremare. Gli adolescenti e i giovani erano tra gli obiettivi privilegiati dei reclutatori di combattenti da inviare in Siria e Iraq, di “martiri” disposti a farsi esplodere e – fenomeno ancora più inquietante per le dimensioni e la non illeicità – questi giovani erano particolarmente esposti alla radicalizzazione, cioè all’adesione a forme di religiosità, intollerante, ossessiva e, potenzialmente, violenta.

La radicalizzazione era giustamente considerata una tappa necessaria verso l’eventuale, successiva scelta della militanza jihadista. Tutti gli studi disponibili sulla materia, osservavano come questa maggiore disponibilità a radicalizzarsi era facilitata dalla fragilità di un’identità sospesa. Questi adolescenti da un lato erano impossibilitati a identificarsi fino in fondo con le comunità di arrivo a causa di razzismo, pregiudizi e dei mille piccoli e grandi soprusi, angherie, e intralci che un giovane immigrato incontra nella sua vita quotidiana. Dall’altro non potevano aderire alla comunità originaria reale dei genitori, della quale talvolta praticavano male lingua, costumi e tradizioni e a cui oggettivamente non avevano mai appartenuto. L’esito era che chi forniva loro un appiglio identitario presentato come “aperto eppure saldo”, l’ingresso in una comunità disponibile ad accoglierli ma “esclusiva” nella sua appartenenza, se ne procurava più facilmente un’adesione e una lealtà totale. Va sottolineato che un simile processo non riguarda solo il jihadismo o l’estremismo di matrice islamista, ma in realtà tutte quelle forme di esperienze identitarie che passano attraverso la radicalizzazione: le gang criminali, ne sono un altro esempio.
Se l’Italia ha finora conosciuto un fenomeno di radicalizzazione meno diffuso e preoccupante di altri Paesi europei, ciò è stato anche dovuto alla minor numerosità di immigrati di seconda generazione e alla loro più bassa età media.

Si tratta di una circostanza che ci ha regalato un margine di tempo utile per evitare di ripetere gli errori commessi da altri prima di noi. Un tempo che stiamo in gran parte sciupando. Ci piaccia o meno la prospettiva di una società multietnica e multiculturale, la possibilità di poter conseguire la cittadinanza in tempi rapidi e certi, senza astrusi meccanismi vessatori o scorciatoie per milionari, costituisce un passaggio di perfezionamento nell’adesione all’identità della comunità nazionale, un contributo al suo pluralismo, alla sua evoluzione, alla sua vitalità e la maggior assicurazione contro radicalizzazione e razzismo, oltre che un atto di equità, civiltà e giustizia.
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