L’omicidio di Serena Mollicone e il coinvolgimento processuale della famiglia Mottola sono un caso giudiziario troppo lungo e complesso per essere trattato in maniera cartolare, per questo l’ultimo atto in Cassazione dovrà avere la «massima pubblicità» e la «trattazione dovrà essere orale», ciò significa con l’arringa degli avvocati in aula. Solitamente, infatti, in Cassazione i giudici si riuniscono in camera di consiglio e valutano i ricorsi e le memorie delle parti prima di decidere. In questo caso, invece, la difesa della famiglia Mottola, di Franco, Marco e Anna Maria (tutti assolti in primo grado e in appello per l’omicidio di Serena Mollicone, la 18enne di Arce assassinata il 1° giugno 2001), ha chiesto l’udienza pubblica e la discussione in aula. «Ritenuta la complessità e l’importanza della vicenda processuale nonché la necessità di esporre verbalmente gli argomenti di oggetto di giudizio è stato chiesto che l’udienza sia trattata oralmente e in forma pubblica con la partecipazione dei difensori e di tutte le altri parti processuali», ha spiegato il criminologo Carmelo Lavorino portavoce della difesa Mottola che ha diramato la nota assieme all’avvocato Enrico Meta.
L’ISTANZA
L’istanza, prevista dal codice sulla quale dovrà pronunciarsi la Corte, è stata depositata in Cassazione dagli avvocati Francesco Maria Germani, Piergiorgio Di Giuseppe e Mauro Marsella, difensori di Franco, Marco e Anna Maria Mottola. In appello, come accennato, c’era stata l’assoluzione bis perché la corte d’assise ha ritenuto l’impianto accusatorio «lacunoso» fondato su un movente «evanescente». In 59 pagine erano stati ripercorsi i punti essenziali del processo e i punti focali che dell’accusa: dall’ultimo avvistamento alle dichiarazioni di Santino Tuzi sull’ingresso della giovane in caserma. «Non vi è certezza - sostengono i giudici - che la barbara uccisione sia avvenuta in caserma, non è certo che via sia entrata e non è certo che sia stata scagliata contro la porta».
L’IMPUGNAZIONE
La procura generale, di contro, lo scorso novembre ha impugnato la sentenza di assoluzione della famiglia Mottola per «illogicità» e «carenza di motivazione».
In pratica la procura generale ritiene che la corte d’assise d'appello che ha assolto gli imputati, pur riconoscendo in più punti, la «plausibilità della ricostruzione prospettata dall’accusa», poi, «incomprensibilmente» conclude per «l'insufficienza degli indizi» soffermandosi solo sull’elencazione, senza dare «spiegazioni logiche e comprensibili».
Gli elementi individuati nel ricorso incentrato, per ovvio ragioni procedurali, tutto in punta di diritto, traslati sul merito vuol dire che la procura generale, al contrario dei giudici do secondo grado, ritengono dimostrati i principali elementi dell’impianto accusatorio. A partire dall’attendibilità delle dichiarazioni rese dal brigadiere Tuzi sull’ingresso in caserma ad Arce, dove la giovane avrebbe trovato la morte. Ma anche i presunti depistaggi che l’allora maresciallo Franco Mottola avrebbe messo in piedi per allontanare i sospetti nei confronti di suo figlio Marco. Ebbene per la corte d'assise di Cassino furono «condotte maldestre» ma non «depistaggi»; per la corte d'assise d'appello, invece, «qualcosa di più di condotte maldestre», ma alla fine è stato comunque escluso il depistaggio. Da qui la richieste di «riscrivere» la sentenza sul giallo di Arce.
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