Goffredo Parise scrisse di Caio Mario Garrubba: «Era il fotografo del comunismo». Ma fu poi proprio lui, il fotoreporter della Cortina di Ferro, a correggerlo, qualche anno, in una intervista a Manuela De Leonardis: «Per me era il comunismo della speranza». Ma chi come Ermanno Rea lo conosceva bene certificò poeticamente il percorso umano e professionale di Caio: «Scavò tra le malinconie individuali e collettive degli orti socialisti». Mario Caio Garrubba nacque a Napoli, nel 1923. Aveva radici calabresi. Morì a Spoleto, agli inizi di maggio di dieci anni fa. Fu amato dai tedeschi, fu apprezzato dai francesi e, in particolare dalla giovanissima Brigitte Bardot che fotografò ancor prima che diventasse diva internazionale. Fu ringraziato dai poveri del Sud Italia perché li immortalò nelle loro fatiche. Il giorno che fece vedere ad Henri Cartier-Bresson le sue foto si rese conto di aver creduto, non troppo involontariamente, all'aspirazione alla libertà nei paesi comunisti. Il maestro Henri ne scelse una, quella che gli piaceva di più. Era una colomba che sbucava da una valigia, in un mercato di Mosca coperto di neve nell'inverno del 1957.
Freddo, gelo, la colomba era lì, bianca, immobile, ma senza prendere il volo. La passione della foto nacque in Mario, racconta Alla, poco dopo la guerra. «Fu nel 1949 quando con Nicola Sansone, un suo ”gemello” napoletano potremmo chiamarlo, — racconta sulla terrazza di Cirella di Diamante - Mario scoprì una Leica. Nicola e Mario erano cresciuti insieme in un liceo napoletano e tutti e due delinearono le loro esistenze in funzione di un avvenire rivoluzionario». Tentò negli anni giovanili di impiantare un bar a Capri, investendo, si fa per dire, i soldi ricavati dalla vendita di antichi palazzi di famiglia in Calabria. Finì quasi a fallimento, nell'isola dove lo raggiungeva anche Raffaele La Capria. Poi divenne funzionario sindacale, all'Inca, un istituto di assistenza sociale vicino al Pci. Il primo viaggio in Spagna, dove la dittatura aveva appena umiliato il comunismo, fu una svolta di vita per imboccare la strada del fotogiornalismo. Le foto finirono, grazie a Plinio De Martis, sul tavolo di Mario Pannunzio al Mondo. «Mi raccontava Mario - dice ancora Alla - che lui era come un panettiere. Confezionava con il lievito degli occhi quel che poi sarebbe cresciuto nell'obiettivo. Ebbe ragione Valerio Magrelli quando scrisse di Mario, prendendo in prestito una bella frase di Cormac McCarthy, che lui aveva espresso l'idea dell'istantanea come cauterizzazione, tatuaggio, cicatrice, stemma dermatologico impresso a fuoco sopra la superficie sensibile».
Alla è spesso al computer nelle sue giornate a Spoleto, dove vive.
Riceve tutti quelli che vogliono conoscere la storia di Mario, a partire da Ernesto Caselli, ex sindaco di Diamante, che insignì il famoso fotogiornalista della cittadinanza onoraria. O come Enzo Monaco, inventore sì dell'industria e del brand calabrese del peperoncino, ma anche editore spesso lasciato solo da poteri pubblici lontani dalle radici. «Ci sono nella mia casa di Spoleto oltre novemila negativi, frutto del lavoro di Mario. Non sono ancora classificati. Ho iniziato a far fare questo lavoro, ci vogliono troppi soldi». Il patrimonio di un grande fotogiornalista del Novecento rischia di andare perduto. «Ogni foto per Mario è stato un atto di amore per la vita». Mario amava la vita, ma ha perdutamente amato fino alla morte Alla, conosciuta in Polonia. «Arrivai in Italia il 25 aprile del 1963, trovai le strade imbandierate e con i fuochi d'artificio. Dissi a Mario: cosa sono questi fuochi? Lui mi rispose: li ho fatti preparare per te. Era, invece, la festa della Liberazione, nata dalla Resistenza che poi Mario mi spiegò con la forza della libertà».