L'occhio magico di Garrubba sul comunismo

L'occhio magico di Garrubba sul comunismo
di Antonio Manzo (inviato)
Sabato 12 Settembre 2015, 11:05 - Ultimo agg. 11:06
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«Quando mio marito, Caio Mario Garrubba, rientrava dall'Est europeo, negli anni della Guerra Fredda, pareva sembra che gli fosse appena caduta addosso tutta la felicità della terra. Ma durava poco questa apparente felicità perché Mario sapeva benissimo che, proprio da dove era tornato, il comunismo faticava a liberare gli uomini dalle ingiustizie del mondo. Lui mi diceva: lì non sono liberi, inseguono un sogno. Mario era sospeso in questa ondivaga scelta esistenziale perchè l'occhio magico della sua Leica o Rolleiflex gli consentiva di inquadrare i volti della storia che passava ma senza quella sguardo di libertà che anche lui cercava. Contento di aver fotografato, tra i primi al mondo, Kruscev e Mao, Ho Chi Min e un giovane arcivescovo Wojtyla in processione a Cracovia, ma al fondo del suo lavoro c'era l'inquietudine di un fotoreporter del Novecento con le sue tragedie. Anche quelle del Sud del dopoguerra, di Napoli e della Calabria». Alla Folomietov Garrubba, polacca di nascita, con i suoi ottant'anni è l'ultima testimone, perché compagna di vita e dell'opera di uno dei più grandi fotogiornalisti del Novecento. Cirella di Diamante per lei è un incanto da vivere nei mesi estivi, dove l'occhio si avventura ad ogni tramonto a raggiungere l'orizzonte dell'isola di Cirella, e più in là, dell'isola di Dino. «Fotografo il tramonto con un iPhone, non so se ci riesco, ma è come se sentissi Mario sussurrarmi: guarda lì, metti a fuoco, clicca quando i colori a te sembrano più belli e poi riportali sulla terra».



Goffredo Parise scrisse di Caio Mario Garrubba: «Era il fotografo del comunismo». Ma fu poi proprio lui, il fotoreporter della Cortina di Ferro, a correggerlo, qualche anno, in una intervista a Manuela De Leonardis: «Per me era il comunismo della speranza». Ma chi come Ermanno Rea lo conosceva bene certificò poeticamente il percorso umano e professionale di Caio: «Scavò tra le malinconie individuali e collettive degli orti socialisti». Mario Caio Garrubba nacque a Napoli, nel 1923. Aveva radici calabresi. Morì a Spoleto, agli inizi di maggio di dieci anni fa. Fu amato dai tedeschi, fu apprezzato dai francesi e, in particolare dalla giovanissima Brigitte Bardot che fotografò ancor prima che diventasse diva internazionale. Fu ringraziato dai poveri del Sud Italia perché li immortalò nelle loro fatiche. Il giorno che fece vedere ad Henri Cartier-Bresson le sue foto si rese conto di aver creduto, non troppo involontariamente, all'aspirazione alla libertà nei paesi comunisti. Il maestro Henri ne scelse una, quella che gli piaceva di più. Era una colomba che sbucava da una valigia, in un mercato di Mosca coperto di neve nell'inverno del 1957.



Freddo, gelo, la colomba era lì, bianca, immobile, ma senza prendere il volo. La passione della foto nacque in Mario, racconta Alla, poco dopo la guerra. «Fu nel 1949 quando con Nicola Sansone, un suo ”gemello” napoletano potremmo chiamarlo, — racconta sulla terrazza di Cirella di Diamante - Mario scoprì una Leica. Nicola e Mario erano cresciuti insieme in un liceo napoletano e tutti e due delinearono le loro esistenze in funzione di un avvenire rivoluzionario». Tentò negli anni giovanili di impiantare un bar a Capri, investendo, si fa per dire, i soldi ricavati dalla vendita di antichi palazzi di famiglia in Calabria. Finì quasi a fallimento, nell'isola dove lo raggiungeva anche Raffaele La Capria. Poi divenne funzionario sindacale, all'Inca, un istituto di assistenza sociale vicino al Pci. Il primo viaggio in Spagna, dove la dittatura aveva appena umiliato il comunismo, fu una svolta di vita per imboccare la strada del fotogiornalismo. Le foto finirono, grazie a Plinio De Martis, sul tavolo di Mario Pannunzio al Mondo. «Mi raccontava Mario - dice ancora Alla - che lui era come un panettiere. Confezionava con il lievito degli occhi quel che poi sarebbe cresciuto nell'obiettivo. Ebbe ragione Valerio Magrelli quando scrisse di Mario, prendendo in prestito una bella frase di Cormac McCarthy, che lui aveva espresso l'idea dell'istantanea come cauterizzazione, tatuaggio, cicatrice, stemma dermatologico impresso a fuoco sopra la superficie sensibile».



Alla è spesso al computer nelle sue giornate a Spoleto, dove vive.
Riceve tutti quelli che vogliono conoscere la storia di Mario, a partire da Ernesto Caselli, ex sindaco di Diamante, che insignì il famoso fotogiornalista della cittadinanza onoraria. O come Enzo Monaco, inventore sì dell'industria e del brand calabrese del peperoncino, ma anche editore spesso lasciato solo da poteri pubblici lontani dalle radici. «Ci sono nella mia casa di Spoleto oltre novemila negativi, frutto del lavoro di Mario. Non sono ancora classificati. Ho iniziato a far fare questo lavoro, ci vogliono troppi soldi». Il patrimonio di un grande fotogiornalista del Novecento rischia di andare perduto. «Ogni foto per Mario è stato un atto di amore per la vita». Mario amava la vita, ma ha perdutamente amato fino alla morte Alla, conosciuta in Polonia. «Arrivai in Italia il 25 aprile del 1963, trovai le strade imbandierate e con i fuochi d'artificio. Dissi a Mario: cosa sono questi fuochi? Lui mi rispose: li ho fatti preparare per te. Era, invece, la festa della Liberazione, nata dalla Resistenza che poi Mario mi spiegò con la forza della libertà».


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