Il Mezzogiorno
troppo diviso

di Isaia Sales
Mercoledì 17 Agosto 2016, 10:17 - Ultimo agg. 21:24
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ll finanziamento da parte del Cipe dei Patti per il Sud sottoscritti da sei regioni meridionali su otto (e da cinque città su otto) è stato salutato da più parti come una svolta nelle politiche del governo nazionale verso il Mezzogiorno d’Italia.

Ma si tratta di vera svolta? Vediamo come stanno effettivamente le cose. Dal punto di vista delle risorse i Patti per il Sud non fanno altro che sommare le risorse comunitarie già attribuite alle singole regioni a risorse nazionali derivanti dal Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc). Quante sono queste risorse in più? Secondo alcuni attenti osservatori come Andrea Del Monaco e Gianfranco Viesti, alcuni Patti approvati conterrebbero per il 70% opere già previste e finanziate da tempo mentre appena il 30% riguarderebbe stanziamenti nuovi rispetto a quelli già deliberati da Bruxelles: insomma non più di 5 miliardi veramente aggiuntivi. A questi vanno sommati 15 miliardi assegnati ai ministeri (ma non ancora utilizzabili) sempre presi dal Fondo per lo sviluppo e la coesione. Una cifra da non disprezzare, non c’è che dire. Ma se la paragoniamo alla somma di 64,4 miliardi di euro che il governo Prodi stanziò nella legge finanziaria del 2007 utilizzando la stessa fonte di finanziamento (che allora si chiamava Fas, fondo per le aree sottoutilizzate) per accompagnare il programma 2007-2013 di spesa dei fondi comunitari, allora la parola svolta perde un po’ di efficacia. Certo, quei fondi non furono mai spesi per il Sud, perché nel frattempo il centrodestra vinse le elezioni del 2008 e il ministro Tremonti, con il pretesto della crisi economica, li utilizzò per ogni necessità sottraendoli al legittimo destinatario con l’avallo della Lega Nord. Anche il governo Renzi ha utilizzato una quota di quelle risorse per finanziare il bonus occupazione. Recentemente è stato pubblicato uno studio approfondito di Gian Paolo Boscariol sulla «Rivista giuridica del Mezzogiorno» che svela cifra per cifra come sia stato possibile quella straordinaria sottrazione di risorse al Sud impiegandoli in mille rivoli che quasi niente avevano e hanno a che fare con l’economia meridionale. Mai e poi mai è stata rispettata l’attribuzione dell’80% di quelle risorse al Sud come dettava la legge.

Ora di quei fondi Fas rimasti il governo Renzi ne investe una parte nei Patti per il Sud. È un fatto positivo ma non la svolta. La seconda perplessità riguarda il fatto che, ad oggi, il programma per il Sud è la somma degli otto programmi delle regioni meridionali. Non si sa ancora quali siano gli impegni dei vari ministeri sia nella spesa ordinaria sia in quella in conto capitale. E soprattutto non è stata finora presentata una strategia nazionale per il Sud, senza la quale i Patti regionali non sono altro che una frammentazione di spesa. È evidente che allo stato non c’è un rapporto tra i piani costruiti regione per regione e la rete degli interventi che riguardano l’intero Mezzogiorno. In parole povere la domanda è questa: ma il programma del governo Renzi per il Sud (il cosiddetto Masterplan) si esaurisce nella somma dei singoli Patti? Se la risposta è sì, allora siamo di fronte ad un errore strategico clamoroso che va la più presto corretto. I programmi di otto regioni non fanno una strategia di sviluppo per il Sud, lo ripeterò fino alla noia. Una seria strategia per il rilancio dell’economia del Mezzogiorno non può rinchiudersi nei limiti ristretti dei programmi regionali, ma deve necessariamente allargarsi ad una visione sovraregionale e nazionale. 
In terzo luogo, è necessario un coordinamento delle regioni meridionali? Assolutamente sì. L’essenza del regionalismo meridionale è la cooperazione tra le sue otto regioni. Fuori da questa dimensione è irrazionale e nocivo. Senza una visione unitaria il regionalismo meridionale vorrebbe dire la fine del meridionalismo. Ancora di più perché manca un ministero per il Mezzogiorno.

E allora, perché non lo si fa? Anzi, la domanda è questa: sono le regioni meridionali interessate a coordinarsi tra di loro? E il governo nazionale stimola le regioni meridionali su questa strada?
È evidente che se non si riesce a costituire questo coordinamento, nonostante le otto regioni siano dello stesso colore politico, vuol dire che non tutti i possibili protagonisti sono d’accordo nel farlo. Indubbiamente Emiliano, il presidente della regione Puglia, ha dato l’impressione di aver proposto il coordinamento come arma di pressione politica verso il governo centrale; Renzi, a sua volta, non è felice di un coordinamento perché ne teme il valore rivendicativo e di contrapposizione alla sua azione di governo e di partito; De Luca non lo vuole perché teme la leadership di Emiliano. Ma costituire un coordinamento delle regioni meridionali (e dargli stabilità) è una proposta imprescindibile e va valutata al di là dalle ambizioni personali dei singoli.

Nella conferenza Stato-Regioni i territori meridionali hanno quasi sempre avuto la peggio nello scontro di interessi per i criteri di attribuzione delle risorse (e lo abbiamo visto nella sanità e in altri settori) in quanto le Regioni meridionali quasi mai hanno espresso un comune sentire, una comune visione dei loro problemi e quasi mai si sono presentate con un’unica posizione È evidente che quelle del Centro-Nord hanno utilizzato molto meglio l’interlocuzione con il governo centrale e, contrariamente a quelle del Sud, hanno marciato insieme. 
Per me resta fondamentale costruire politicamente una dimensione da macroregione del Sud e dare ad essa una forma politica e qualche strumento tecnico per cominciare ad operare. Manin Carabba ha proposto di cogliere l’occasione del Senato delle Regioni per risolvere tale questione, andando addirittura al di là del coordinamento e istituendo una vera e propria Conferenza delle Regioni meridionali, come luogo di raccordo con i vari ministeri e (immagino) di elaborazione di una strategia unitaria. È una proposta che aspetta degli interlocutori con cui confrontarsi.
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